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La storia di Morrone del Sannio-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Don Peppe


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DON
PEPPE

e la “Candida Mole”

Storia di una ricostruzione

nel ricordo di Antonietta

 

 

 

 

 

 

 

 

Stefania Pedrazzi

a mio padre, Bruno

 

 

 Prefazione

Avevo 65 anni, quando arrivai Vescovo di Termoli e Larino e mi fu presentato subito, nel mio primo incontro a Morrone, come “il teologo”. Mi accorsi subito che lui, pur tenendoci a questa meritata qualifica, si sentiva solo come Rettore della sua chiesa che aveva reso bella. Pur non essendo parroco, era stimato come sacerdote e come operatore di carità.

Più tardi lo vidi e lo apprezzai come Rettore di S. Maria Casalpiano, una chiesa rustica, che ho ancora nella memoria per le diverse celebrazioni che vi ho fatto.

La simpatia tra me e don Peppe nacque immediatamente e fu accresciuta nella mia prima Visita Pastorale fatta negli anni ‘81-82, quando potei conoscere da vicino la sua buona sorella, che era per lui un vero angelo consolatore e consigliere.

Di don Peppe ricordo ancora la sua umiltà e la sua infinita timidezza, come pure la sua riservatezza e la difficoltà di non aver potuto esprimere totalmente la sua vocazione teologica, alla quale da giovane era stato avviato. Era, però, buon teologo e quando si parlava con lui in privato, manifestava pensieri alti e profondi, che lasciavano pensare a quali scritti era stato destinato.

Ricordo anche di averlo incontrato dopo una forte nevicata, che aveva isolato Morrone dal resto del Molise, con l’interruzione dell’energia elettrica e il fermo dei panifici. Ero inquieto, perché volevo andare a visitare i paesi innevati, ma i Carabinieri mi sconsigliarono. Mi rivolsi alla Polizia e così con una macchina chiodata, arrivai nel centro di Morrone, dinanzi alla chiesetta di don Peppe; c’erano parecchi uomini anziani seduti. “Come state? Com’è stata questa nevicata?” La risposta (per me fu una grandissima lezione) è stupenda: “Monsignore, mai peggio!”.

Non ho mai dimenticato quella risposta e più volte me ne avvalsi nelle immancabili avversità. Ma la risposta più bella la dette don Peppe che, avendo visto arrivare il Vescovo, uscì di casa, tentò di baciarmi la mano e disse: “Monsignore! Come, con questa neve qui!”

Ed io: “Sentivo che dovevo venire!”. E lui: “Un padre va a trovare i figli anche in capo del mondo. Ma state tranquillo, qui non ci manca niente! Quando c’è Dio, c’è tutto”.

Questo era don Peppe. Così lo ricordo sempre nelle mie preghiere!

 

+ Cosmo Francesco Ruppi

Arcivescovo Metropolita di Lecce

Presidente Conferenza Episcopale Pugliese

 

 

 

Introduzione

 

 

«Spezzò il pane e disse: “Questo è il mio corpo”...».         

Le campagne si erano svuotate, i cani dormivano, il silenzio copriva il paese. Uomini, donne e bambini accorsero alla Maddalena, assiepandosi vicini gli uni agli altri. Gli uomini tenendo il cappello in mano e con le giacche consunte dal sole e dall’uso si tenevano pronti ad ascoltare con lo sguardo serio. Avevano lasciato che le donne si avvicinassero all’altare ed esse, con i capelli raccolti nei fazzoletti, stringevano innanzi al petto le mani in preghiera. Per avere la vista dall’alto, i bambini erano invece saliti sui cumuli di pietra, accoccolandosi alla meglio.

La Maddalena non esisteva più. L’edificio era crollato una mattina del dicembre 1943; a mezzogiorno, di colpo, si era sentito un gran fragore, le pietre erano rotolate sul selciato e il tetto si era accasciato sul pavimento, mentre i vetri delle finestre andavano in frantumi e la campanella rintoccava scossa dall’urto. I gatti si erano nascosti lesti, infilandosi nei più sicuri anfratti o nelle case dei padroni, i cani, tremanti, con la coda fra le gambe, si addossavano ai muri. Finito il disastro, tra le polveri dello sfacelo si intravedeva solo una parte dell’abside, ergendosi sulle rovine come una madre china sul letto del figlio. Il boato aveva spaventato la popolazione, e come il diapason vibra quando vibra la corda sorella, così il rumore di quel cedimento aveva risvegliato il ricordo del sibilo delle bombe, che pure a Morrone avevano provocato tre vittime civili nell’ottobre dello stesso anno: Angelo Michele Mustillo e Carmine Gabriele Carbone maciullati dai bombardamenti dell’artiglieria hitleriana in ritirata e Roberto Pillo ucciso dal fucile di un militare tedesco nelle campagne a valle del paese. Il silenzio che era seguito al crollo aveva spaventato le persone, forse più dello schianto, lasciandole per qualche secondo col fiato sospeso, immobili e curiosi di sapere cosa fosse accaduto. Subito dopo, tanti volti si erano affacciati alle porte e alle finestre e, lentamente, in molti avevano raggiunto il luogo del crollo. Di fronte al disastro, quel giorno, una domanda correva di bocca in bocca, di cuore in cuore: “Cosa ne sarà della chiesa della Maddalena?”

In realtà il cedimento doveva essere prevedibile, perché già allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale l’edificio non era più agibile e le ristrettezze causate dal protrarsi del conflitto non avevano che peggiorato la situazione. La comunità no era stata in grado di sopperire alle necessarie opere di consolidamento. Quante coppie avevano detto “sì” in quella chiesa, quanti bambini vi erano stati battezzati, quante anime vi avevano ricevuto l’addio al mondo! Come era possibile che al posto di una chiesa restassero solo delle macerie o, peggio, niente? Le priorità erano tuttavia ben altre; c’era penuria di tutto, mancavano i beni di prima necessità. C’era lo sgomento dei reduci, sopravvissuti agli orrori della guerra, ai campi di prigionia, ai disordini dell’Armistizio, alle rappresaglie e c’era il dolore di coloro che avevano perso i loro cari. La guerra si era portata via trenta giovani e chi era tornato portava ferite profonde nel corpo e nell’anima. I loro nomi sono scolpiti nel marmo del monumento ai caduti: Giuseppe Ambrosio, Antonio Amoruso, Fortunato Alfonso, Francesco Cerulli, Michele Cocco, Domenico Colasurdo, Giovanni Colasurdo, Giuseppe Colasurdo, Domenicantonio Di Iorio, Giuseppe Fabio, Raffaele Faccone, Nicola Fimiani, Domenico Ioffreda, Giuseppe Ioffreda, Modesto Ioffreda, Giovanni Iorio, Luigi Iorio, Michelino Iorio, Gabriele Marchitto, Giovanni Marchitto, Giuseppe Marchitto, Alfredo Mastandrea, Raffaelle Mastrogiacomo, Angelo Mastromonaco, Biase Mastromonaco, Giuseppe Antonio Mastromonaco, Giuseppe Mastromonaco, Domenico Mustillo, Guido Taurozzi e Giuseppe Romano, che cadendo da eroe aveva meritato la medaglia d’oro. E come se questo inumano sacrificio non fosse bastato, i giovani avrebbero ripreso presto a partire per emigrare verso le grandi città del nord, oppure avrebbero varcato i confini verso le acciaierie tedesche, la Svizzera, la Francia o le miniere del Belgio. A centinaia avrebbero attraversato l’oceano diretti in Sud America, scegliendo tra Argentina e Brasile, oppure verso gli Stati Uniti e il Canada. Partivano i giovani e rimaneva la nostalgia, la solitudine. Mancava il lavoro e mancavano le braccia forti di coloro che se ne erano andati, proprio quando sarebbero servite per ricostruire. Nel giro di tre lustri, dal 1936 al 1951, Morrone perse 1030 abitanti, oltre un terzo della popolazione[1].

Ma davanti a tutto quel vuoto, al quale si aggiungeva il vuoto lasciato dal crollo della Maddalena, don Giuseppe Mustillo, che nel ‘44 aveva 29 anni, non si arrese e scelse di lottare. Il giovane sacerdote voleva trasmettere ai suoi concittadini un segno di quella speranza nel futuro e di quella fiducia nel prossimo che sentiva ancora forte, e per farlo decise di celebrare, ogni volta fosse possibile, la messa domenicale proprio fra i resti del distrutto tempio. La chiesa di Santa Maria Maddalena non esisteva più, ma vi erano le sue pietre e le sue fondamenta.

I morronesi compresero il suo pensiero, furono conquistati dalla sua contagiosa voglia di ricominciare e si unirono a lui nella lunga missione della ricostruzione. Di una celebrazione in particolare, sotto un timido sole primaverile, è rimasto il ricordo. Era la Pasqua del 1945 e qualcuno scattò una foto di quell’evento, cogliendo il momento del rito della comunione in un’atmosfera tangibile di commozione e solidarietà. Seguiranno decenni di lavoro incessante, spesi nella ricostruzione. Non mancarono i momenti di incomprensione e di tensione, ma ciò che a noi interessa è l’insegnamento che se ne trae, ovvero che il cuore degli uomini e delle donne è capace di grande forza, superiore ad ogni previsione, così come il perdono sa vincere sull’indifferenza e contro le avversità. Ma occorre sempre che qualcuno accetti di guidare gli animi e con coraggio si carichi della responsabilità del buon esempio e dei buoni esiti, nella consapevolezza dei propri limiti. E’ in questo che vale la pena sempre confidare.


 

 

La vocazione

 

 

Con queste parole inizia il breve ricordo che il compianto Vittorio Mastromonaco, che i morronesi con affetto chiamano ancora don Vittorio, maestro elementare, giornalista e fine poeta, fa della vita di don Peppe: “Terzo d’una bella nidiata, don Peppino nacque a metà ottobre del 1915 da Nicola ed Elisa Mastandrea. Terminate le elementari (…la quarta soltanto, allora, a Morrone!) e smessi i giochi propri di quell’età e del nostro paese così ricco di bravissimi artigiani di ogni mestiere, fu collocato a bottega da un ottimo sarto, perché tale diventasse anch’egli (…e ben rammento con quale premura badava all’apprendistato, e la riverenza pel maestro). Ma la Provvidenza aveva altri disegni per lui, e ne aveva predisposte le doti: intelligenza, amor proprio, costanza… E così Peppino entrò in seminario, ove quei doni si temprarono. Quanta la commozione allorché al fronte sulle Alpi Cozie, nel giugno del 1940, mi pervenne l’annuncio – tuttora conservato – dell’ordinazione sacerdotale e della prima Messa sua e di don Daniele al paesello: e il rammarico di non poter esser presente!... Poi con tenacia si laureò e dal Vescovo fu designato a curare i giovani seminaristi, e quindi a seminare il bene fra la gente ond’era nato”[2].

Don Peppe nacque il 30 ottobre del 1915 a Morrone, in corso del Popolo numero 27 ed in realtà era il quarto di sette figli, giacché la prima sorella era scomparsa prematuramente.  Da pochi mesi era scoppiata la Prima Guerra Mondiale e tra gli uomini partiti per il fronte vi era anche il sindaco del paese, Michelino Colasurdo, sostituito nel ruolo da Francesco Antonelli fino al 1919. Il 1 novembre il ventisettenne Nicola Mustillo si recò in Comune per registrare la nascita del figlio portando con sé i testimoni Pasquale Di Iorio, quarantasettenne farmacista, e Giuseppe Romano, possidente di sessantacinque anni. Dopo sei giorni nacque a Morrone un altro bambino, anch’egli di nome Giuseppe e anche suo padre, Domenico Ioffreda, di ventisette anni. La madre si chiamava Maria Michela Cannavina. Stesso nome, stessa pagina del registro, ma diverso fu il destino per questo giovane che, richiamato alle armi, tornò dalla Seconda Guerra Mondiale affetto da malaria e morì dopo molti mesi di sofferenze.

Elisa Mastandrea, la madre di don Peppe, aveva condiviso il periodo della gravidanza con la commare Cisalpina Mastandrea, moglie di Antonio Tommaso. Cisalpina partorì per prima, il 12 ottobre, dando alla luce un paffuto bambino di nome Pasqualino e inaspettatamente, dopo due settimane, anche Elisa, che era solo al settimo mese, metteva al mondo Giuseppe, prematuro e così gracile da far temere il peggio. Le due amiche vollero celebrare insieme il battesimo, che venne officiato da don Gabriele Colasurdo, il quale era di animo schietto e prima di iniziare il rito osservò bene i due pargoli notandone subito la gran differenza di salute. E non ci dovette riflettere troppo quando d’istinto esclamò: “Qui sì che ci sta san Martino”, riferendosi al bimbo più cicciottello, con le guance rosee e gli occhi spalancati sul mondo, mentre il piccolo Giuseppe avvolto nei panni, tra le braccia della mamma, non dava grandi segni di vita. Venticinque anni dopo lo stesso padre Colasurdo, ormai anziano, partecipava alla prima messa celebrata da don Peppe, e colmo di compiacimento per il giovane esclamava: “E questo è quel bambino!”

Fu una vita passata lontana dal marito quella della mamma di don Peppe, giacché Nicola, che faceva il calzolaio, a causa delle difficoltà economiche del primo dopoguerra, prese ben presto la via dell’emigrazione, verso gli Stati Uniti dove si richiedevano in gran numero artigiani e operai. Stare lontano dalla famiglia era stato difficile, un enorme peso, ma riuscì a tornare diverse volte a Morrone, prima di rientrare definitivamente. Tanti sacrifici sortirono i loro frutti, perché Elisa e Nicola riuscirono a garantire una formazione scolastica a tutti i figli. Ma grandissima era stata la loro sorpresa quando appresero che Giuseppe manifestava l’intenzione di seguire la via sacerdotale. Pareva contraddittorio che un ragazzino dal carattere così vivace volesse farsi prete. Il bambino amava giocare con gli amici, divertirsi a fare innocenti scherzi ai fratelli e ai vicini di casa, mettendone anche a prova la pazienza, ma allo stesso tempo era capace di fermarsi a riflettere taciturno senza che nulla potesse distoglierne i pensieri. E sebbene l’indole si rivelasse giorno per giorno sempre più riflessiva e vicina a Dio, i genitori non potevano non essere scettici e se da un lato non gli volevano credere, dall’altro pensavano che non fosse la cosa giusta per lui. Ma quel giovane figlio dimostrava una determinazione davvero inconsueta per la sua età, tanto che un giorno, sconsolato perché incompreso, sbatté la testa contro la pietra del camino, e strillò, con voce disperata ma tenera: “Io mi voglio fare prete!” Nicola, d’altronde, aveva ben altri progetti per lui. Voleva fare di suo figlio un bravo artigiano, voleva che imparasse un mestiere e aveva scelto uno dei migliori “mastri” del paese, il sarto Luigi Mastromonaco. Apprezzato soprattutto dai sacerdoti, dimostrava grande precisione e maestria nel confezionare abiti talari e paramenti sacri, sempre perfetti in ogni dettaglio, a cominciare dalle lunghe teorie di bottoni che cuciva sulle nere tonache. Giuseppe, nonostante non vi si sentisse portato, per rispetto e ubbidienza nei confronti  del padre, aveva accettato di svolgere il suo tirocinio. Ogni giorno si presentava a bottega, puntuale e pieno di buoni propositi, cercando di convincersi che era quello il suo cammino. Aveva tentato di immedesimarsi fino in fondo in quel ruolo, tanto che un giorno provò a fare da solo. Il maestro Luigi si era dovuto assentare e aveva lasciato sul banco il taglio incompiuto di un paio di pantaloni, il giovane apprendista inforcò le forbici e zac proseguì sulla linea delle tasche. Sembrava che tutto fosse andato per il meglio, ma finito il lavoro si accorse che il segno del gesso era ben più breve e fu tale il timore di essere redarguito, che si precipitò fuori dal laboratorio, tornando di corsa a casa. Da allora non ebbe più il coraggio di riaffacciarsi a bottega, ma proprio quell’episodio e la persistente insistenza di Giuseppe convinsero Elisa e Nicola ad accompagnare il figlio in seminario.

Dopo gli studi canonici, don Peppe proseguì con sempre maggiore interesse e il 20 novembre del 1959 completò gli studi presso l’Università di Napoli, sotto il pontificato di papa Giovanni XXIII. Il 16 marzo 1974 si laureò con lode in Teologia, presso la Pontificia Università degli Studi “San Tommaso d’Aquino”, sotto il pontificato di papa Paolo VI, scegliendo per tesi di laurea il tema della Trinità. E quando nel 1977 la sua tesi fu pubblicata con il titolo “Le relazioni trinitarie in Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino”, ne portò una copia all’ormai anziano sarto Luigi Mastromonaco, accompagnando l’omaggio con una battuta: “Chissà se ci capirete qualcosa!”

Nei primi anni del sacerdozio di don Giuseppe, la madre Elisa gli restò accanto, sostenendolo in ogni attività. Ella amava chiamare il figlio “san Luigi”, perché lo vedeva mite e generoso come il Santo che aveva dedicato la sua breve vita agli umili e gli ammalati, fino all’estremo sacrificio. Elisa aiutava il figlio nelle sue incombenze sacerdotali e quando don Peppe intraprese l’opera della ricostruzione della chiesa di Santa Maria Maddalena, ella si adoperò con uguale e forse maggiore impegno al suo fianco. Si spendeva nella ricerca costante delle risorse necessarie per il cantiere, nell’assistenza agli operai impegnati nei lavori edili e quotidianamente si occupava dei pasti da preparare per le maestranze. Ogni passo compiuto sembrava un miracolo, viste le difficoltà, e in alcune occasioni Elisa aveva riconosciuto la mano della Provvidenza. Amava raccontare di come un giorno, dovendo preparare la minestra si sentisse avvilita perché non aveva nemmeno un cucchiaio di olio. Con l’intenzione di chiederne un po’ si era recata da un’amica, ma il pudore aveva avuto il sopravvento e invece di chiederle l’olio che le serviva, vedendo che la donna stava per recarsi nel bosco, le aveva detto: “Tu devi affrontare il freddo, prendi questa gonna, ti farà comodo!” Si tolse una delle due gonne che indossava e gliela offrì, tornando a casa sconfortata. Grande fu la sorpresa quando vide tornare la sua amica a restituirle la gonna, perché la stessa aveva con sé anche un po’ di olio: “Grazie - le disse - faceva tanto freddo! Prendi, quest’olio è per te”. Elisa, commossa aveva risposto: “Un angelo ti ha parlato all’orecchio, perché non ne avevo nemmeno per condire la minestra che ho preparato per mio figlio prete!”

Mentre i giorni e gli anni passavano, un pensiero tormentava la donna: come avrebbe fatto don Peppe a provvedere a se stesso quando lei non ci fosse più stata? Forse sentiva in cuor suo che non avrebbe potuto seguire a lungo il cammino del figlio e forse anche don Peppe sentiva che non avrebbe potuto a lungo contare sull’aiuto della madre. Ma negli stessi giorni la sorella di don Peppe, Antonietta, aveva cominciato a procurare serie preoccupazioni alla madre. Sembrava assente, non interessata alle cose che invece facevano trepidare le sue amiche. Il futuro era ricco di promesse, eppure ella stava vivendo un tormento nuovo nell’anima, che la rendeva incerta e ansiosa, tanto da rivolgersi al fratello, confidandogli: “Non so cosa mi succede. Non sento più le cose del mondo”. Pensando che fosse giunta la vocazione, Antonietta si era messa in contatto con il convento delle suore di Morrone. Fece istanza per prendere i voti, ma presto si ammalò. Passarono molti giorni e quando si fu ristabilita tornò dalla madre superiora, la quale però nel frattempo aveva molto riflettuto ed era giunta ad una conclusione: “Antonietta - le disse - tu hai un fratello prete. E’ quella la tua missione. Lo devi aiutare e sostenere nel suo apostolato. Avrà bisogno di te”.

Il 30 giugno 1940, una settimana dopo che era stata officiata da Mons. Bernacchia la consacrazione di don Giuseppe, il giovane prete confessava alla sorella: “Sai, il giorno della mia prima celebrazione ho chiesto al Signore la grazia di poter contare sull’aiuto di una sorella tutta per me”. Ad Antonietta fu finalmente tutto chiaro e prese la decisione di restare accanto a lui per la vita. Elisa, ormai gravemente malata, quando apprese della decisione della figlia, sentì il cuore attraversato da diversi sentimenti, da una parte il rammarico per il sacrificio che Antonietta era disposta a fare e dall’altra il conforto di sapere che i due giovani avrebbero affrontato ogni cosa insieme. Morì il 22 novembre del 1953, giorno di santa Cecilia, a 62 anni, e queste furono le ultime parole che rivolse a Giuseppe: “Sono contenta che non ti lascio solo, perché ti lascio Antonietta”.

 

Storia di una ricostruzione

 

La vita di don Peppe fu scandita, durante il suo lungo cammino, dalla missione della ricostruzione della chiesa di Santa Maria Maddalena. Con queste parole il maestro Vittorio Mastromonaco riassume i decenni trascorsi nella faticosa opera: “Ed ecco affiorar l’intraprendenza, il desiderio di riattare la Maddalena a gloria del Signore e per favorire gli abitanti nella parte inferiore del borgo che – specie d’inverno – han difficoltà a salire nella Chiesa Matrice. Chiamò a collaborare quanti stimava potessero aiutarlo: per il progetto, per la raccolta dei fondi: con recite, stampe…; la richiesta del suolo che – me vice sindaco – dal Comune fu dato gratuitamente: e la costruzione in più lotti, ma man mano che le raccolte lo consentivano…: ed eccola infine, la chiesa bella, per cantarvi le lodi del Signore; ecco la parola vibrante di don Peppino a chiarirne gli aspetti e i tempi”[3].

L’originale edificio della Maddalena risaliva, secondo il Masciotta, al secolo XVII. Si deve la prima descrizione della chiesa al vescovo di Larino, mons. Giovanni Andrea Tria (1676-1761), che nel 1744 ne parla nelle sue Memorie:  “Fuori dell’abitato vi è la Chiesa sotto il titolo di S. Maria Maddalena, Juspadronato dell’Università, posta sulla salita della montagna distante da essa Terra 50 passi in circa, e la comunità la provede di tutto il bisognevole”[4].

A metà dell’800, come relaziona don Mario Colavita sulle pagine de Il Morronese, la chiesetta appariva diroccata e abbandonata. Fu il parroco don Michele Mastrogiacomo a farsi carico della ricostruzione, con la stessa dedizione che quasi un secolo dopo avrebbe mostrato don Peppe Mustillo. Conosciamo la storia di quel tenace parroco da una leggenda firmata di Giuseppe di Iorio: “Bello è ogni travaglio. Sostenuto per l’amor di Dio e della S. Religione. Don Michele Mastrogiacomo consumò se stesso e le proprie sostanze per mantenere sempre difeso gli onori di Dio, fabbricò il calvario perché il cittadino reduce dalla giornaliera fatica, avesse a chi affidare i suoi sospiri e le sue miserie. Quasi dalle fondamenta ristabilì la diruta cappella rurale dedicata alla Maddalena perché la più parte dei cittadini distaccati dalla chiesa Matrice, avesse ove esercitare il suo culto religioso e pregare pel bene della morente famiglia. Perdonò ai suoi nemici, beneficò ai suoi ignoranti, pregò per quelli che gli pregavano male. Dormi benemerito cittadino. I tuoi benefici renderanno non moritura la tua memoria nei cuori di coloro che verranno. L’alba del 6 gennaio 1874 egli fuggì dall’immonda gara di questo secolo corrotto e, spiegò il suo volo a Dio”[5]

Nel 1864 il parroco don Michele Mastrogiacomo volle ripristinare la chiesetta nell’uso e a tal fine presentò al Consiglio Municipale di Morrone una richiesta di ampliamento e riattazione. Il 17 luglio l’autorità locale si espresse in modo favorevole, deliberando che se ne comunicasse l’intendimento al Sottoprefetto del Circondario di Larino. Questi, dopo una sola settimana, incaricò l’agrimensore Angelo Mastrogiacomo di redigere la “Pianta topografica numerica descrittiva” dell’edificio. Il tecnico depositò la documentazione il 30 luglio, mettendo in luce come l’originale pianta della costruzione apparisse ben più ampia, elemento che faceva pensare che l’edificio fosse stato posteriormente ridimensionato, probabilmente a causa di un crollo. Nel 1868, quattro anni dopo l’inizio dei lavori di ristrutturazione, lo stesso Mastrogiacomo stilava un documento sullo stato dell’opera e un preventivo per completarla. La costruzione sarebbe costata 11.190,88 lire, di cui erano già state spese 2.125 lire. La campanella fu fatta realizzare dopo la morte di don Mastrogiacomo, nel 1884, commissionata alla Fonderia Marinelli di Agnone dal sacerdote don Olindo De Vito e da Tomaso Colacarro. Della chiesetta ristrutturata esiste una fotografia e la descrizione che ne fa nel 1914 Giambattista Masciotta nel suo Il Molise dalle origini ai nostri giorni: “Edificata nel secolo XVII, non essendo menzione di essa nell’apprezzo dell’università del 1593. Nella prima metà del secolo era ‘extra moenia’: ora, invece, è quasi nel centro topografico dell’abitato, dopo il considerevole prolungamento di questo in virtù degli operosi emigrati in America. Si compone di una sola nave, e non offre nulla di notevole dal lato artistico”[6].

Carlo Iorio la descrive così: “La ricordiamo anche noi che era più piccola di altro stile e senza campanile, non era nemmeno rettangolare; il muro frontale misurava 50 cent. di meno da quello posteriore. Nei muri laterali c’era un arco che ci faceva capire che anticamente la chiesa era ancora più piccola e mediante quest’arco salvava il peso ai muri vecchi per la sopraelevazione. Il muro di prospetto era nuovo con l’agiunto ai fianchi attaccato al muro vecchio”[7].

In seguito furono eseguiti altri lavori di ordinaria manutenzione, come lo stesso Iorio ricorda: “Dopo del M. Rev. Arciprete Mastrogiacomo possiamo credere che ci è stata sempre qualche anima buona che ha avuto cura della chiesetta della Maddalena [...] Come nel precedente: Il M. Rev. Arciprete Don Domenico Mastrogiacomo, poi il Rev. Don Olindo De Vito, più tardi il Rev. Don Angelo Mastandrea se ne occuparono per il mantenimento di questa chiesetta della Maddalena. Prima, “Cappella rurale” e poi man mano è divenuta chiesa dell’abitato [...] Ricordo all’età mia ne ebbero cura a rifare la copertura. Iorio Domenicantonio, nipote del Tomaso Colacarro e il Sac. Don Angelo Mastandrea. Non’ostante questa cura durante la guerra mondiale 1942-45 la detta chiesetta crollò. Prima del crollo le autorità fecero trasportare dalla Maddalena alla Chiesa di San Roberto le statue che ivi esistevano che se non sbaglio erano: Statua di S. Anna, statua di S. Donato, e la statua della titolare della Maddalena e, nella stessa chiesa di S. Roberto si celebrava la messa domenicale che era consuetudine celebrarsi nella chiesa della Maddalena che era molto più comoda per i fedeli dell’abitato”.

Il 27 dicembre del 1943, l’edificio si era accartocciato su se stesso e Iorio racconta di come don Peppe decida di impegnarsi nella ricostruzione “Ora dobbiamo dire dello zelo del Rev. Don Giuseppe Mustillo: Don Giuseppe Mustillo, giovane sacerdote pieno di indusiasmo per questa Chiesetta, la vedeva crollata. Tutta la copertura caduta, giaceva sul pavimento. Il prospetto si manteneva ancora. La porta chiusa a chiave, ai apriva solamente quando l’incaricato si recava a tirare la fune della campanella posta sul muro stesso ancora intatto per dare il segnale ai ragazzi di andare a scuola. Nessun culto religioso si poteva svolgere. Don Giuseppe Mustillo, considerò il caso del frutto spirituale che i fedeli venivano a perdere per mancanza di questa Chiesa. Vi era allora nel nostro paese un nascente Circolo Cattolico con sede  in una vecchia casa di proprietà dei fratelli Giambattista fu Michelangelo che possiamo raffigurarla in una fotografia della processione del 15 Agosto tirata dal fotografo Cialì nel 1950 (detto da noi Cimitierio) invece oggi ci è la palazzina del commerciante Pasqualino Parente”.

E’ nel giorno del 15 agosto 1944 che il popolo di Morrone passa all’azione, come ci fa sapere ancora Iorio: “Nella festa più bella di Morrone, 15 Agosto 1944, Luigi Tommaso, socio del Circolo Cattolico, partì ben presto da Morrone, corse a Petrella dalla tipografia Lembo per far stampare i manifesti formato protocollo per l’appello a tutti i Morronesi, vicino e lontano, in Americhe e nell’esercito, ovunque si fossero trovati a venire in aiuto nella loro possibilità per la ricostruzione di questa chiesa. I manifesti portano la firma: Il Presidente del Comitato Arciprete Gabriele Colasurdo. Nella messa alta di mezzogiorno, Don Giuseppe Mustillo che tenne il panegirico durante la messa cantata intrecciò tra le Lode più belle alla Vergine Assunta in Cielo la necessità della Chiesa della Maddalena, implorante ad ogni cittadino l’aiuto possibile per la riedificazione della detta Chiesa della Maddalena. Durante la processione appena dopo la S. Messa, i fedeli che accompagnavano la venerata e bella statua della Vergine Assunta, fresche e scottante le parole di Don Peppino vedevano già i manifesti attaccati ai muri che invitavano a tutti i Morronesi vicino e lontano e in qualunque ranco degli Eserciti venire in aiuto per la ricostruzione della Maddalena. Il dopo pranzo di quel giorno stesso, i dirigenti del Circolo Cattolico convocarono una riunione nella loro sede di tutti coloro che credettero idonei a dare un parere sulla ricostruzione della detta Chiesa, intervennero anche qualche sacerdote compreso D. Peppino”.

Si era dunque formato un Comitato che, presieduto dall’anziano don Gabriele Colasurdo, nel pomeriggio del 15 agosto si riunì nella sede del Circolo Cattolico. L’Arciprete consegnò le 50 lire e 50 centesimi raccolti, aggiungendo un’offerta personale di mille lire, seguito nell’esempio e con generosità da tutti i presenti. E poiché si andava incontro all’inverno si decise di partire dalla produzione della calce. Fu individuato nei pressi della Fonte Nuova, nel campo di Modesto Iorio (soprannominato Olerio), il luogo adatto per la call’cara, la fornace nella quale si sarebbero dovute cuocere le pietre per tre notti e due giorni. Tutti si offrirono di contribuire al lavoro che consisteva nel trasportare sul posto le pietre e il materiale da ardere. Partecipavano anche i bambini, che seguivano don Peppe e, imitandolo, con le loro piccole mani raccoglievano le pietre e le lanciavano nella fornace. Don Peppe accettava quell’aiuto e li ringraziava regalando loro gassosa e caramelle. Sembra di cogliere l’orgoglio di chi partecipa a una buona missione nelle espressioni dei bimbi che guardano con curiosità la prima fila di pietre di quella che sarà l’abside.

Tra le principali figure che ispirarono don Peppe nel suo apostolato, forse la più amata era quella di don Bosco che ai più giovani aveva dedicato il suo intero apostolato. Don Peppe ne condivideva il messaggio educativo, sintetizzato nelle parole ragione, religione, amorevolezza, e si era impegnato, come aveva fatto il Santo, non solo nella formazione bensì anche nell’offrire occasioni di gioco e di svago ai più piccoli. A tal fine si era ripromesso di realizzare uno spazio pensato per i giochi e trovato il locale adatto, vi aveva allestito una sala per l’oratorio. Una volta ricostruita anche la chiesa della Maddalena, vi aveva ricavato uno spazioso vano per il medesimo scopo. Si inaugurò così la nuova “Sala Don Bosco”: furono invitati tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze e i loro genitori che vi trovarono, oltre ai dolcetti preparati dalla sorella Antonietta, anche un calcio balilla, il tavolo da ping pong e degli strumenti musicali: una batteria, una pianola e una chitarra. Da allora, ogni 31 gennaio, si festeggiò la festa di San Giovanni Bosco, per la quale don Peppe coinvolgeva gli insegnanti delle scuole elementari e medie, mentre Antonietta preparava i dolci. Finita la festa, don Peppe faceva visita agli ammalati e portava loro un po’ di prelibatezze.

Di bambini parla con tenerezza don Peppe in un articolo in lingua inglese dedicato ad un viaggio fatto in America: “Le ore più belle che passai negli U.S.A. e in Canada furono quelle trascorse con i bambini. Una volta avevo vicino alle ginocchia un bambino (il nipote di Peter D’Amato). Gli accarezzai il viso e i riccioli d’oro. Il bimbo era felice e improvvisamente mi disse: prendimi in braccio. Un’altra volta stavo parlando al figlio undicenne di Josephine Giambusso del suo servizio in Chiesa, quando improvvisamente il fratello più piccolo, di circa 5 anni, puntando l’indice verso di me, disse: anche tu sei stato un chierichetto? Un’altra volta mentre ero in viaggio nell’auto di Joseph Ambrosio e suo figlio era seduto sul sedile posteriore, io vidi una mucca nel prato e non ricordando quale fosse la parola in inglese lo chiesi a Joseph. Il bambino (sulla destra nella foto) improvvisamente urlò: La mucca fa il latte. La lingua inglese nella bocca di un bambino mi sembrava una dolce melodia. Amavo stare con loro e ricordavo le parole di Gesù: lasciate che i bambini vengano a me, non respingeteli; il regno di Dio appartiene a loro. In verità vi dico, l’uomo che non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà mai. Noi, con la forza della nostra volontà, dobbiamo rendere i nostri cuori come quelli dei bambini”[8].

L’attenzione verso i bambini era acuita dalla consapevolezza che i mezzi delle famiglie erano quasi sempre limitati, soprattutto nel periodo del dopoguerra. A volte la povertà era tale da mettere in forse la stessa sopravvivenza dei più piccoli. Donare il mantello, come aveva fatto san Francesco, era una eventualità che si presentava spesso al giovane sacerdote. Una sera don Peppe stava uscendo dalla chiesa della Maddalena, quando scorse nella penombra del mattino tre uomini che si rivolgevano a lui dicendo: “Abbiamo freddo e fame, veniamo dall’est”. Don Peppe guardò i profughi macilenti e tremanti, si tolse il mantello e lo appoggiò sulle spalle del più malandato dei tre. Poi rientrò in chiesa, aprì le scatoline delle offerte e ne trasse poche lire che consegnò loro: “E’ tutto quello che c’è”,  disse. Infine li condusse a casa e li fece accomodare: “Antonietta hai preparato qualcosa? Abbiamo degli ospiti”. I tre consumarono il latte caldo e il pane, che Antonietta aveva preparato per il fratello, e una volta rifocillati, salutarono, ringraziarono e ripresero il loro cammino.

Spesso invece occorreva prendere una decisione ‘saggia’, anche se non ortodossa, pur di evitare il peggio. Doveva aver pensato così don Peppe, quando accettò di celebrare segretamente le nozze tra un uomo e una donna, vedova di guerra. Il matrimonio religioso non doveva essere palesato, per evitare che a lei fosse revocata la pensione e quindi il sostentamento per i tre figli: un maschio e due femmine.

Non era necessario chiedere, don Peppe restituiva in silenzio tutto ciò che riceveva e la vita dei santi non era per lui un affascinante racconto, bensì un esempio da seguire. Un giorno, quando era già anziano, cadde dalle scale e la sorella Antonietta, che era intenta a tritare le mandorle per i dolci, sentì il tonfo e accorse per aiutarlo e fu così che vide a terra sei bollettini postali: don Peppe aveva appena donato in beneficenza tutto il denaro che possedeva.

D’altronde i meno fortunati avevano un posto speciale nei suoi pensieri. I malati aspettavano con sollievo la sua visita, ancor più gradita quando si recava spontaneamente al loro capezzale. A volte qualche familiare di idee ostili non gradiva quella che considerava una intrusione. Il marito di una donna malata era arrivato a dire ad Antonietta: “Tuo fratello è proprio scocciante”, riferendosi alle sue visite quotidiane. Ma don Peppe non se ne curava, perché vedeva la gratitudine negli occhi degli infermi e questo era un sufficiente lasciapassare anche nei casi più difficili.

Furono molte le iniziative promosse per invogliare altri generosi contributori a sostenere la ricostruzione della Maddalena, compresa la diffusione di cartoline con il rendering del progetto e l’atmosfera era sempre di festa e solidarietà, come ricorda Iorio: “Eravamo appena dalla disastrosa seconda guerra mondiale, tutto scarseggiava, ma agli operai della calcara non gli mancava nulla. Le buone donne, le figlie di Maria giravano per le case delle amiche e tutto usciva = farina, olio, vino, uova, peperoni e anche qualche coniglio, perché gli operai alla fornace mangiassero più saporite la pasta fatta di casa. Loro stesse le giovanette impastavano cucinavano e i più adatti, col canestro sulla testa ad uso Morronese portavano alla calcara. Gli operai vedendo tutto questo endusiasmo, come lavoravano contenti! Spesso si vedeva qualche buona donna all’alba con caffettiera avvicinarsi agli operai che tutta la notte per turno avevano infornate spini e paglia alla bocca infuocata della calcara [...] E come possiamo dimenticare l’atto di Antonietta Credico (ora ha avuto già la ricompensa dal Signore) e di Rosa Maria Lalla. Più notte si alzavano verso le due e andavano ad essiccare con secchi la vasca della fonte nuova per spegnere la calce viva dopo sfornata dalla calcara. Con questo indusiasmo si fece il primo passo nella seconda metà del 1944 per la ricostruzione della chiesa della Maddalena”.

Sul perché di questa attività infaticabile che ha consentito alla comunità di Morrone del Sannio di usufruire di nuovo della chiesa della Maddalena, lo stesso don Peppe dichiara le sue motivazioni in un articolo dal titolo Perché ho lavorato e continuo a lavorare: “Ma non è soltanto per fare una bella casa al Signore ho lavorato, non soltanto per portare Gesù Eucaristia alla parte bassa del paese ed aprire dal Tabernacolo una nuova sorgente di acqua viva zampillante alla vita eterna. Non è solo perché il Tempio con la sua religiosa e artistica attrattiva elevi lo spirito a Cristo e alla Vergine Santa e sprigioni una scintilla di religiosità dal cuore dei vostri figli e nipoti che verranno a Morrone. Il mio motivo è anche un altro ed è il più importante. Io ho richiesto il vostro sacrificio per coinvolgervi nel mio apostolato, nella mia missione di conquista delle anime e dell’avvento del Regno di Dio. Il motivo più importante che mi ha spinto ad essere importuno ed a picchiare alle vostre case per la richiesta di offerte è stato quello di spingervi a lavorare con me per il Signore, a porvi davanti un ideale, un traguardo che servisse a formare la vostra personalità umana e cristiana, a farvi conquistare meriti per il Cielo e benedizioni per i vostri cari, a vivere insieme il mio e il vostro dramma, il dramma di Cristo, di morte salvifica e di resurrezione alla gloria. Perché ricordatevi: tutto passa come un’ombra, tutto sarà sommerso in un eterno silenzio. Solo quello che avremo fatto per amore di Gesù non perirà. “Le opere ci seguiranno” (Apocalisse di San Giovanni 14-13). “In fin di vita si raccoglie il frutto delle opere buone” ha lasciato scritto San Giovanni Bosco”[9].

Il Comitato intanto si riuniva regolarmente nel Circolo Cattolico, che nel frattempo però aveva cambiato sede, trasferendosi in corso Umberto I nel seminterrato della casa di Luigi Iorio, fratello di Carlo. L’ingegnere Cesare Antonelli si offrì di curare la direzione dei lavori gratuitamente, come gratuita era spesso la manodopera (che all’epoca veniva remunerata con 150 lire la giornata). L’11 marzo 1945 si iniziò a rimuovere le macerie e il 23 aprile la campanella trovò una prima seppur precaria collocazione: dalla sommità di un palo avrebbe suonato per le messe celebrate all’aperto, come quella immortalata nella foto del 1° maggio 1945.

L’anziano ma esperto Luigi Romano sovrintendeva i lavori e finalmente, il 13 giugno del 1945 fu posta la prima pietra: “Di propria persona S. Ecc. Mond. Vescovo Otto Bernacchia doveva venire a predicare a Morrone nella festa di S. Antonio 13 Giugno. Volemmo approfittare di quest’occasione. Il Comitato con l’accordo del capo mastro, Luigi Romano, fece del tutto a riuscire all’intento. Scavarono le fondazioni dove doveva collocarsi la prima pietra precisamente all’angolo del prospetto a vico Cantù, prepararono la pietra ben riquadrata con l’incavo per la pergamena. La voce correva tra il popolo che il 13 giugno si svolgeva una funzione mai vista a Morrone; era una novità che ognuno voleva assistere. Arrivò il 13 giugno. S. Ecc. venne a tessere il panegirico del Santo di Padova e il dopo pranzo col ripartire svolse la funzione della benedizione della prima pietra. Luigi Romano coadiuvato dal comitato preparò tutto quel che occorreva per la funzione: la calce, cazuola, la pietra già attaccata al parangolo in un trepiede. Il popolo si calcava sempre più, si dovette ricorrere a un steccato con fune. Visto tale affollamento gli uomini, specie i più giovani, si adagiarono sui tetti circonvicini. Arrivò il momento della funzione ed il popolo si stringeva sempre più. Ecco arrivò il Vescovo coi sacerdoti del luogo, Don Peppino giunse con la pergamena, senza leggerla la collocarono in un vetro nell’incavo della pietra, il Vescovo benedisse e la pietra scese all’angolo dell’edificio. Dopo Mons. Vescovo salì su una pedana già preparata dal Comitato e con la sua chiara parola finì da indusiasmare l’animo dei Morronesi incoraggiandoli a concorrere a quanto bisognava per la ricostruzione della chiesa da parte sua si dispose di cento: Oggi 13 giugno 1945 abbiamo benedetto la prima pietra, con l’aiuto di Dio e con la Vostra buona volontà, fra non molto ritorneremo a benedire tutte le pietre che compongano questa chiesa. Questa singolare funzione si avrebbe voluto tenere più presente con fotografie e altro, ma era il momento che mancava di tutto. Si trovava in licenza un soldato Americano figlio di un altro Luigi Romano residente a Syracusa Stati Uniti d’America. Sapevamo che i soldati americani abbontavano di tutto. Antecedentemente a questa funzione li chiedemmo che quando tornava a Reggimento ci avesse fatto il favore di spedirci una pellicola 6x9 da servirci a questa funzione. Il soldato fu puntuale ci spedì la pellicola e un ‘foot ball’ per i giovani sportivi di Morrone. Non mancava solo la pellicola, ma in quel tempo scarseggiava anche chi doveva adoperarla; riuscì bene solo l’ultima posa... Ho voluto ricordare poco prima, che chiusero la pergamena senza leggerla... ed ecco le parole che furono scritte W CRISTO RE. Anno Domini millesimo novigentesimoquadragesimo quinti, Idibus Iunii.Pio papa XII feliciter regnante, auspice Dei Genitrice Maria, nec non Sancta Maria Magdalena, orbe universo arma odraque deponente, tempoli Luius, ut oppidi civium vota compleret.Oddo Bernacchia, Episcopus Larinensis christiane pretatis incrementum exoptans, magno populi concursus, initium fecis Oddo Bernacchia Gns. Larinese Arc. Gabriele Colasurdo, Sac. Angelo Cieri, Sac. Angelo Mastandrea, Sac. Daniele Fimiani, Sac. Giuseppe Mustillo, Sac. Raffaele Faccone[10].

Il Comitato era molto attivo nella ricerca di fondi, promoveva  collette di olio e di grano, merci che poi venivano rivendute; Raffaele Iorio, figlio di Carlo, organizzava rappresentazioni teatrali; don Peppe sollecitava le offerte quando si trovava a celebrare messa nelle parrocchie viciniori. Spesso, in occasione delle feste, si organizzavano giochi popolari allo stesso fine e anche il ricavato delle tessere di adesione al Circolo di San Giovanni Bosco, presieduto da Carlo Iorio, veniva destinato alla causa.

Nel corso del 1945 i lavori procedevano spediti. Si ultimarono le fondamenta e si eressero le pareti esterne della saletta ricavata nel seminterrato della chiesa. Una immensa roccia occupava molto spazio e, quindi, si dovette procedere a modellarla per far spazio ai muri. Agli inizi del ‘46 fu appaltato il lavoro di zoccolatura, che si aggiudicò l’impresa di Giovanni Fimiani. Il 2 settembre del 1947 fu stipulato il contratto con Vittorio Ruscitti, titolare della cava di Petrella, per l’acquisto della pietra rosa (a lire 9.000 al metro cubo) con la quale realizzare i finestroni.  Nella primavera del ‘48 il materiale lapideo fu consegnato e il primo a lavorarlo fu lo scalpellino Orlando Fimiani “gratuitamente per ricordo e in suffragio del fratello morto in guerra”[11]. Il lavoro fu poi proseguito da Francesco Martinini e poi, alla sua morte, dal figlio Manfredo. Alla fine del ‘48 l’elevazione era giunta all’altezza dei finestroni e nel ‘52 era completata. Si susseguirono diverse squadre di muratori: dapprima Giuseppe Lombardi, seguito da Giovanni La Selva (entrambi di Castellino) e infine Arcangelo Colasurdo. Carlo Iorio nel suo memoriale fa presente come in un triennio si fossero triplicati i costi di costruzione e come fosse difficile raccogliere i fondi necessari per l’acquisto dei materiali, in particolare per realizzare il tetto. Si cercava di risparmiare e spesso si coprivano lunghe distanze per acquistare i materiali: la capriata in ferro fu procurata dall’architetto Antonelli presso una ditta di Roma, il cornicione fu acquistato dal Comitato a Guardialfiera, Carlo Iorio e Michele Antonelli si recarono a Pescara per travi e tavole in legno, mentre le tegole furono scelte presso la ditta Primiani di Baranello. Eppure, nonostante la buona volontà di tutti, sia nella raccolta fondi sia nella gestione oculata degli stessi, i soldi non bastavano; in un decennio (1945-’55) erano stati spesi 18 milioni, in parte frutto della generosità dei parrocchiani e in parte messi a disposizione personalmente da don Peppe e dallo stesso Vescovo.

Nel luglio del 1949 don Peppe si rivolgeva all’on. Giacomo Sedati, democristiano eletto il 18 aprile del 1948 alla Camera dei Deputati, nel quinto governo De Gasperi, per chiedere allo Stato di intervenire con un contributo. Sedati rispose a stretto giro di posta il giorno 16 dello stesso mese, garantendo attenzione all’istanza, ma facendo anche presente che la legislazione al proposito era chiara e ogni azione doveva essere concordata con le autorità ecclesiastiche. Don Peppe non perse tempo e il giorno dopo aver ricevuto quella lettera inviò una urgente missiva al vescovo di Larino e Termoli, mons. Bernacchia, per chiederne l’autorevole intervento presso l’ingegnere capo del Genio Civile di Campobasso, così come suggerito da Sedati. Purtroppo la pratica ebbe un iter estremamente lento, come testimonia la fitta corrispondenza che intercorse tra il Vescovo, il Ministero e la Prefettura di Campobasso, ancora negli anni  1955-’57.

Nel 1953 don Peppe si recava a Lourdes in pellegrinaggio. Tornando in treno, seduto nel suo scompartimento teneva d’occhio l’involucro che aveva posizionato nel portaoggetti. Si trattava di una statua raffigurante la Madonna di Lourdes, alta circa 50 cm. Non senza difficoltà era riuscito nell’intento, soddisfatto di portare quell’omaggio agli abitanti di Vallecupa, una contrada di Morrone, lontana dal centro abitato e dalle chiese del circondario. Don Peppe percepiva il bisogno di quei contadini - una quindicina di famiglie - di una presenza al cui cospetto fermarsi per un pensiero o una breve orazione. Fu così che tornato a Morrone si recò da loro, accolto entusiasmo e gratitudine. Ma la statua della Madonna di Lourdes aveva bisogno di un luogo adeguato, che la riparasse dalle intemperie e fu così che i più abili costruirono una nicchia in pietra, intorno alla quale nel tempo fecero crescere una pergola a difesa dal sole. Don Peppe fece stampare anche una immaginetta che recava sul retro la “Canzoncina alla Madonna di Vallecupa” che egli stesso aveva composto e da allora, ogni anno mantenne la tradizione. Passata la notte in casa dei coniugi Raffaele e Antonietta, arrivava l’alba di un giorno tutto dedicato a quella piccola comunità: don Peppe parlava con tutti, ne ascoltava le storie, le gioie e i dolori, confessava i fedeli e infine li raccoglieva per la messa davanti alla Madonna di Lourdes. La sera era dedicata al divertimento e ai giochi, ai quali non si sottraeva, sottoponendosi anche alle prove più divertenti, come lo “schiaffo del soldato”. Ma non era quella l’unica occasione in cui don Peppe raggiungeva Vallecupa, dove si recava sempre accompagnato dalla sorella Antonietta, anche per impartire il catechismo ai bambini.

Il legame tra don Peppe e i suoi compaesani era molto forte, ovunque essi abitassero, a Morrone o all’estero. Quando ne aveva il tempo si avviava da solo verso Santa Maria in Casalpiano per pregare e meditare. Maria Mastromonaco che abitava nei pressi del convento di San Nazario, un giorno lo vide da lontano e si spaventò: il sacerdote, scalzo, con gli orli dei pantaloni ripiegati, un lembo della veste talare in una mano, mentre nell’altra teneva le calze e le scarpe, stava camminando sui rovi che lo stesso marito di Maria, per ripulire il bordo della strada, aveva da poco tagliato. La donna si mise a correre verso don Peppe, dicendo a gran voce “Ma vedi cosa stai facendo?”, indicandogli i piedi nudi, che sanguinavano sulle spine. “Come Gesù Cristo…” si era limitato a dire il sacerdote. All’amico Giovanni Mastromonaco che risiedeva in Canada, conoscendone la vena poetica, don Peppe aveva chiesto di comporre dei versi da dedicare alla Madonna. Giovanni si era schermito: “Don Peppe, tu sei teologo e chiedi a me una poesia?”, poi però si era impegnato realizzando un testo che piacque molto.

 

Alla Madonna Assunta

 

Col tuo celeste manto

cosparso di stelle d’oro

come un brillante cielo

di primavera,

col tuo volto

d’Immacolata rosa

lo sguardo è fisso

verso l’eternità.

 

O Madre di Dio,

Madre dei mortali,

Tu nel tuo braccio sorreggi

Gesù, nostro Redentore.

L’umanità tutta intera

t’adora e t’ammira

e ai tuoi piedi s’inchina.

 

Regina dei Cieli

Madre di umili esseri,

il Tuo nome vive perenne

nel cuore dei tuoi figli.

 

Sui mari e continenti

e nell’universo intero

la tua immagine

sfida i secoli

e gloriosa affiora

sulle mortali cose

e sulle miserie umane.

 

Oh Madre, Madonna mia!

Pensando a Te,

fervente di Fede

battono le mie ciglia,

e nel pianto, ancora una volta

la pace in me ritorna8.

 

Nel giugno del 1955 la chiesa della Maddalena aveva finalmente un tetto, ma il lavoro da fare era ancora lungo. Il campanile era fermo all’altezza dei muri della chiesa e mancava il portale. L’uscio alto 4 metri e largo 2 e mezzo era tamponato con semplici tavole. Nel 1956 furono montati i vetri ai finestroni e nello stesso anno, finalmente, sul pavimento costituito dalla fredda gittata in cemento si tornò a celebrare la messa domenicale, usando per altare umili tavoloni. La popolazione continuava a dare il suo contributo di braccia e buona volontà, ma mancavano ancora circa 5 milioni per terminare i lavori. Il Ministero, il 6 dicembre del 1957, comunicava di poter contribuire solo per la cifra di un milione e mezzo di lire. Come accade spesso nelle opere di edilizia il consuntivo aveva superato il preventivo e purtroppo le Istituzioni potevano basarsi solo sulle previsioni di spesa. Ci volle molta determinazione per affrontare tutti i problemi che uno alla volta, e talvolta tutti insieme, si presentavano. E alle difficoltà materiali si aggiungevano quelle personali, perché don Peppe non godeva di buona salute, come ebbe a relazionare mons. Oddo Bernacchia, dopo la visita pastorale effettuata a Morrone il 28 ottobre del 1954: “Don Giuseppe Mustillo... tiene gli uomini di Azione Cattolica... Sarebbe assistente di plaga... La plaga comprende Morrone, Ripa, Casacalenda, Provvidenti... Malato. Merita tutto l’appoggio perché possa superare la sua crisi di sofferente”[12].

Nel ‘58 l’impresa di Peppino Niro completava il campanile e la posa in opera degli stipiti del portale. In tanti anni il Comitato, coordinato sempre dal presidente Carlo Iorio (padre del medico Raffaele Iorio), e costituito da Gabriele Mastandrea, Luigi Tommaso, Angelo Mustillo e Michele Antonelli  che fungeva da cassiere,  non si era mai stancato di fare incetta di  grano, olio e qualsiasi bene. L’obiettivo era ambizioso, servivano ancora altri fondi per la ricostruzione della Maddalena e don Peppe aveva deciso di varcare l’oceano, per andare a presentare il progetto ai morronesi residenti in America. Ne aveva chiesta licenza il 23 maggio del 1952 al cardinale Piazza, al quale aveva esposto su bella carta intestata Chiesa nuova della Maddalena i vari scopi del viaggio, che - oltre a quello già citato - erano di recare conforto ad un suo fratello sofferente per una crisi matrimoniale, di visitare gli emigrati e portare loro la “parola di un sacerdote della loro terra”, e infine di poter trarre beneficio per la propria malferma salute.

Ma purtroppo proprio la malattia gli impedì di intraprendere il viaggio. Nel 1954 appariva chiaro che don Peppe doveva concedersi una pausa. Fu ricoverato a Re, piccolo centro della Valle Vigezzo, in provincia di Novara, a 7 chilometri dal confine con la Svizzera e a 710 metri di altitudine. Gli era stato ordinato l’assoluto riposo e un’attività manuale che lo aiutasse a rilassarsi. Fu così che don Peppe imparò a ricamare. Solo quando fu certo di riuscire ad affrontare nuovamente i ritmi che lo attendevano a Morrone, partì per tornare a casa.

Una sera del 1959 la sorella Antonietta stava seduta in cucina, le lacrime le solcavano le guance, mentre silenziosa stava immobile. “Antonietta cos’è successo?”, le chiese don Peppe, che tornava dal Seminario di Larino, dove insegnava. “Maria Teresa, la figlia adottiva dei Notarmaso, sta male - lei rispose - è stata colta da encefalite e ora è in coma. I medici dicono che le restano poche ore di vita, povera ragazza”.

Sembrava impossibile che quella giovane volenterosa fosse in fin di vita. Rispettosa ed educata, frequentava i corsi di cucito di Antonietta, che ne aveva apprezzato la serietà e l’impegno nelle ore di insegnamento. Don Peppe, come faceva  nei momenti più difficili, quando ogni speranza sembrava perduta, si rivolse in preghiera al beato Roberto da Salle (1273-1341), il discepolo di papa Celestino V, che a Morrone del Sannio aveva vissuto i suoi ultimi anni. Ciò che accadde dopo lo apprendiamo da una commossa cronaca pubblicata nel 1961 da Gino Parente, nel volume dedicato al beato Roberto: “A Morrone del Sannio, nell’anno del 1959, la giovanissima Maria Teresa Notarmaso, di anni 21, da oltre quattro giorni giaceva irrigidita nel suo piccolo lettuccio e non prendeva alcun cibo. Veniva nutrita con supposte. Il dott. Mastandrea Giovanni, medico curante, non soddisfatto della sua opera, convocò al capezzale della paziente i medici Iorio Raffaele e Colasurdo Achille. In seguito fu fatto venire da Campobasso il prof. Salvatore Saggese, il quale diagnosticò “encefalite”, ma nulla potè fare. I genitori, abbandonata ogni speranza, fecero somministrare alla giovane la estrema unzione e si attendeva la morte. Il Rev. don Giuseppe Mustillo ebbe l’ispirazione. Ricorse alla intercessione del Beato Roberto ed inviò, tramite la sorella Antonietta una reliquia del Beato all’inferma, raccomandando di depositarla sotto il guanciale. Così fu fatto. Il giorno successivo la giovinetta ritornò alla vita con guarigione completa tanto da riprendere cibo e stare bene. Per tutto il Molise si gridò al miracolo e ceri furono accesi all’altare del Beato e sante Messe furono celebrate in tutte le chiese dell’abitato di Morrone”[13].

Fu così che da allora i devoti del beato Roberto si recano  ogni anno, nella giornata del 18 luglio in pellegrinaggio al santuario di Salle, suo paese natio.

Finalmente, nel 1963, don Peppe riuscì a partire per gli Stati Uniti, chi non c’era più era il fratello Michele, chiamato “Mike”, morto il 22 febbraio 1953. I morronesi accolsero il loro sacerdote con grande affetto, rispondendo generosamente all’appello per la ricostruzione della Maddalena. A Newburgh don Peppe fu integrato nelle funzioni ecclesiastiche, operando al servizio della comunità per nove mesi. E’ ancora vibrante di emozioni il racconto che egli fa del suo viaggio su L’Eco della Maddalena del 1966: “A New York e Jersey. Su nave mercantile sono andato in America. Per nessuno dei miei lettori è avvenuto questo. Ma nelle interminabili giornate della nave da carico, nella visione sterminata e continua dell’oceano, la mia anima ha saziato in parte la sete della solitudine nella quale Dio parla al cuore. Per chi – mi chiedevo – ha creato il Signore questi tramonti d’oro che quasi mai alcuno vede? Per chi ha creato il Signore queste meravigliose aurore selvagge sulla punta irritata dei flutti dell’oceano in tempesta? Seduto a poppa, di tanto in tanto, rallegrato dalla visione di coste azzurre, sulle quali avrei voluto approdare con cuore di apostolo, l’anima purificata dalle sofferenze del mal di mare si sentiva più bianca, sposa di Cristo e Tempio dello Spirito Santo e mi gorgogliavano nel cuore le parole di Sant’Agostino: Tardi ti ho amato, o bellezza, tanto antica e sempre nuova. Sbarcando a New York avevo in tasca 50 dollari, ma non ne spesi neanche uno. Quando venne a prendermi il marito di Incoronata Mustillo, di felice memoria, volevo regalare 5 dollari all’autista. Si schermì. Io non conoscevo ancora il buon cuore degli americani. A Rutherford in una delle casette che mi sembravano di fate, dormii saporosi sonni, ma sentivo ancora nelle vene lo spasmodico beccheggio e rullìo della nave. Sembrava che il letto si dondolasse. Poi il cervello e i nervi si placarono e, riposato, spalancai gli occhi sul mondo nuovo: l’America. Quanta affabilità ho trovato dovunque! Sembrava che un angelo invisibile mi preparasse la strada. Sempre una casetta accogliente che mi ospitava, sempre una macchina pronta che mi portava da un luogo all’altro. Appassionate scorribande sulle immense strade di New Jersey, dall’Empire State Building di New York alla White House di Washington, feci sulla macchina di John Ambrosio, un mio parente che presi a voler bene come un papà. A Jersey fu organizzato un incontro con i paesani la sera del 20 ottobre nella sala “La Nuova Vista”. Dovetti rilevare in quella cordiale riunione l’elevatezza dei sentimenti, la nobiltà, la gentilezza degli emigrati Morronesi a Jersey. Pronunziai un breve discorso che fu riportato nel notiziario interno del “Progresso”. (Segue lista delle offerte). A Vancouver. Questo angolo di mondo mi diede la sensazione di essere il panorama più incantevole che abbia mai visto. Montagne coperte di neve e pianure interminabili. Città raccolta e sognante sulle rive pittoresche di una insenatura del Pacifico. Casette di compaesani linde e graziose sui cui tappeti spesso scivolavo. Giardini dalle graziose aiuole, cascate di tremolanti luci a sera per le lunghe vie, ma soprattutto cuori affettuosi, affabilità di Angelina Giambattista e Gabrieluccia Faccone, buone con me come mamme. (Segue lista delle offerte) A Cleveland. Pochissimi gli amici e parenti a Cleveland. Ma il soggiorno fu bellissimo per l’affetto che mi lega ai cugini Domenico Immucci e Rita Mastandrea e la famiglia Taurozzi-Fimiani. A Syracuse. La puntata più a nord degli U.S.A. Tre giorni in amabile compagnia con Tony Romano e Angelo Ianzito. A Philadelphia. A Philadelphia il soggiorno fu reso piacevole e gradito dalla conoscenza di antichi emigrati (le famiglie Blescia e Amoruso) e dalla ospitalità di Luigi Iorio e consorte Maria Domenica Carbone, nomi scritti all’Albo d’Oro della Carità. A Newburgh. In questa città è la tomba del mio fratello Mike. Vi passai l’inverno alla Sacred Heart Rectory dove conobbi il valore e la bontà dei sacerdoti americani di origine italiana (Mons. Caluro ora porta la Croce di Protonotario Apostolico, tanti auguri!) E il buon amico Silvio Eanni che fa? Grande affetto trovai nei cognati di mio fratello: Carmela Russo, l’incomparabile Albert Diamanti e Peter, il povero Peter D’Amto, che ora riposa anche lui sotto le zolle del Cimitero di Newburgh. Questi cari parenti mi offrirono 500 dollari per la Chiesa. A Montreal. Mi sembrava di essere a Morrone quando venne a rilevarmi alla Bus Station una frotta di compaesani. Angelo Michele Marino mise a disposizione la sua casa , ma poi mi fu offerta una bellissima stanza alla Rettoria di S. Raimondo. O festa di luci accese sulle rive del San Lorenzo! O piacevoli sferzate del freddo tagliente sul volto nelle belle contrade della metropoli canadese dove imparai a rintracciare da solo le case dei compaesani. La Pasqua la passai tra i compaesani. In una dolce intimità, solo per loro, celebrai la S. Messa nella sala della Rettoria. Vollero organizzare una serata danzante in mio onore alla Rettoria. E fui presente fino alle due di notte. Qualche malpensante fantasticherà! Io vi dico che non ne potevo più per la stanchezza. E quando andai a letto pregai tutti i santi dle cielo affinché mi facessero grazie di un po’ di sonno ristoratore, il quale venne finalmente quando il sole faceva già capolino nell’orizzonte. O cari amici, io vi ho tutti nel cuore. Risparmiatemi di nominare quelli che più si sacrificarono. Fate tutto non per me, ma per il Signore il quale solo può farvi le più belle grazie”[14].

Nel 1958, anno del centenario dell’apparizione della Madonna di Lourdes, giunsero molte offerte da oltre oceano: da Jersey City, 877 dollari per l’acquisto dei candelieri e anche un altoparlante a due trombe da posizionare sul campanile, i dischi con i vari suoni delle campane e un microfono per il celebrante, e poi altre collette fruttarono oltre 16.000 dollari, mentre in paese si raccolsero 160.000 lire in grano. Da Vancouver arrivarono 360 dollari per l’acquisto della statua della Madonna Maria Ausiliatrice, opera di un artista della Val Gardena, Insam Prinoth. La statua fu benedetta dal più giovane vescovo d’Italia, mons. Costanzo Micci, come si può leggere nella fotonotizia di Vittorio Mastromonaco su “Il Tempo” del 26 novembre 1960.

Fu quindi la volta dell’intonaco e dell’impianto elettrico, poi la scalinata della sagrestia e la pavimentazione del piano di sopra, lavori curati dai fratelli Paolo e Giovanni Moscatello.

Nel 1961 la ditta Angiolillo e Terzani di Campobasso consegnò il portale in legno.  Orlando Fimiani si occupò invece della pavimentazione, realizzata grazie alle cospicue rimesse giunte dai morronesi di Montreal e finalmente, una domenica di luglio del 1962, la statua di Santa Maria Maddalena, che da anni stava nella chiesa del beato Roberto, fu riportata in processione nella sua chiesa. Fu allora che don Peppe ordinò l’architrave del portale, con incisa la frase “Sancta Maria Magdalena dicata”.

Nel 1965 Carlo Iorio scriveva la sua relazione: “In quest’anno, 8 dicembre 1965, solenne chiusura del concilio Vaticano II vediamo la nostra tanta desiderata chiesetta della Maddalena, nuova, ampliata, illuminata da 56 finestrelle alla sommità e 10 finestroni sufficiente per arricchire di luce tutta la chiesa. Il proporzionato soffitto viene ornato da 34 lunette. Oggi la chiesa misura m. 16,20x8,60 per il popolo e m. 6,50x5,75 il presbiterio per il clero e l’altare. Sotto l’attuale sacrestia abbiamo riscontrato una fossa sepoltura vergine e in ottimo stato che misura appena m. 2,50x2,50 (potrebbe essere usata come deposito cacciando la porta a vico Cantu). Sotto la chiesa avremmo voluto ricavarci una magnifica sala per espletare tutte le necessità cattoliche; per la roccia che occupa tutto il suolo della chiesa abbiamo potuto ricavare solo qui davanti un vuoto di circa m. 8,60x5, sufficiente per una sala mediocre”[15].

E’ agli emigrati che don Peppe si rivolge nuovamente in uno scritto del 1966: “Cari compaesani degli Stati uniti d’America, cari amici del Canadà, fratelli del Venezuela e dell’Argentina, emigrati in Svizzera e Germania, dopo tanto tempo la mia voce, che si era fatta fioca, si leva di nuovo per raggiungere i vostri cuori e alimentare la fiamma più ardente: quella della Fede e dell’amor di dio. La fiamma della fede e dell’amore del Signore è nel vostro spirito la più ardente, perché conoscono il vostro cuore generoso; dovrà sempre essere la più ardente, perché sola rimarrà eternamente nel finale silenzio delle cose umane. Io, Voi, negli anni più belli della nostra vita abbiamo ingaggiata una battaglia e dobbiamo vincerla, abbiamo mirato ad una meta e dobbiamo conquistarla. Voi comprendete a che alludo: E’ la candida mole. È la nuova bianca Chiesetta che abbiamo costruito al paese, è il Tempo di Santa Maria Maddalena. L’abbiamo costruita con tanti sudori e dobbiamo completarla all’interno. E’ l’estremo sforzo. E voi lo farete tanto più volentieri in quanto questo modesto contributo dei vostri sacrifici continuerà a farci sentire fratelli, servirà a tenerci sempre uniti nel cammino verso la Patria che non tramonta: il Cielo. Voi cari emigrati, nelle immense regioni del mondo, vi avete costruito una meravigliosa casetta, vi siete formato una posizione sociale invidiabile, vi avete assicurato il pane per la vecchiaia, avete dato ai vostri figli la possibilità di un brillante avvenire. Ma voi alimentate nel cuore una vita ideale, perché non di solo pane vive l’uomo, perché il cristiano non pensa solo alla propria casa, ma anche al Tempio del Signore. Voi alimentate nel cuore una vita ideale che vuol dire: immagine incancellabile del luminoso paese nativo: Morrone nel Sannio, terra di Santi e di antichissime cristiane tradizioni. E a Morrone il vostro pensiero corre all’opera più bella della presente generazione, il monumento più caro che lasceremo ai posteri: la graziosa Chiesa di Santa Maria Maddalena, la costruzione che ha visto i vostri entusiasmi più grandi, i vostri sacrifici più rilevanti, le vostre gioie più pure. Ma ricordate che per me quella Chiesa è soprattutto un simbolo. E’ il simbolo dell’amore che ci lega. E’ l’amore che mi ha spinto sulle strade sterminate del Nord America, nonostante la mia fragile salute. Ho rovistato in tutti gli angoli delle grandi città degli Stati Uniti e del Canadà per scoprire il cuore di un Morronese. E spesso la scoperta ha fatto scendere lacrime dai nostri occhi, perché per me la malattia che non mi abbandona mai è quella del cuore, è la malattia dell’amore: amore puro, disinteressato, religioso, sacerdotale, ansioso di vedervi umanamente felici ed ansioso soprattutto di assicurare la salvezza eterna della vostra anima. In questi anni non sono mancate difficoltà e contrasti. Ma non ho paura per quella forza morale che mi viene dalla coscienza incorrotta, e dall’ideale che sempre mi brilla davanti: l’amore di Dio e la salvezza delle anime. Gli entusiasmi dei primi anni sono a poco a poco scomparsi e mi sono trovato a sostenere un peso diventato spesso enorme per due motivi specialmente: la mia nuova occupazione in Seminario di Padre Spirituale dei piccoli seminaristi e il grande flusso emigratorio del paese che vi ha dispersi in tutto il mondo. E’ appunto per le mie numerose occupazioni che ho trascurato di farvi annualmente un resoconto. Nonostante che voi da buoni amici avete fiducia in me e che la mia povertà sia a tutti nota, ho pensato di fare un resoconto del mio viaggio in America, perché non può mancare al paese chi crede che in America chi sa quali somme favolose abbia raccolto. In America ho fatto sempre notare che io non ero andato a fare l’accattone, ma principalmente per trovare i miei buoni amici, i compaesani. Le offerte mi furono date spontaneamente. Non ho mai chiesto niente a nessuno, sebbene un tacito desiderio fosse palese a tutti: quello di completare la Chiesa”[16].

Ma non sempre i lavori di costruzione soddisfacevano don Peppe: “La Chiesa che abbiamo costruita è tanto bella, ma in pochi anni l’avrebbe rovinata l’umidità. Per mancanza di fondi abbiamo pensato troppo a risparmiare e, nonostante il bel disegno, dell’Architetto Antonelli, i lavori sono riusciti spesso male. E’ mancata durante i lavori la sorveglianza di un tecnico. I 56 finestrini superiori erano e sono di grande effetto estetico. Ma alla base dei finestrini mancava la pendenza e l’umidità penetrava dovunque. I telai non erano stati fatti con criteri razionali e dai bei vetri gialli ogni volta che soffiava il nostro impetuoso favonio, due o tre andavano in frantumi. Sono stati il mio Calvario. E’ così che mi sono deciso a sventrare i 56 finestrini per una soluzione radicale. Ho fatto mettere in ogni finestrino mensoline di pietra di Trani, inclinate e convenientemente ritagliate per lo scolo dell’acqua. Ai finestrini laterali, ai vetri ho sostituito lastre di plastica giallo-rosso. Alla parte ovest, le grondaie che prima erano interne al muro le ho fatte collocare fuori e tra gli interstizi delle pietre ho fatto fare la stuccatura a cemento. Quindi l’umidità alla parte di Favonio è del tutto scomparsa. Alla parte della strada nuova non mi sono deciso a mettere fuori le grondaie per l’estetica, ma ho fatto collocare lastre di piombo sotto la grondaia, non avendo però questa la pendenza, non sono ancora tranquillo. Quest’anno dovrò fare anche la stuccatura di cemento tra gli interstizi delle pietre alla parte della strada nuova. Anche dal terrazzino penetrava umidità nell’abside. Vi ho fatto stendere tre strati di bitume con cartone catramato con la pavimentazione di mattonelle e, a quattro finestrini dell’abside, più investiti dal vento, ho fatto mettere quattro solidissime contro-finestre. Come vedete, cari emigrati, ho bisogno ancora del vostro aiuto. Se tutti quelli che ho conosciuto in America, offriranno un dollaro o due, potrò dare un grande respiro di sollievo nelle mie difficoltà economiche. Perché il mio disinteresse possa risvegliare la vostra generosità. Fo rilevare che le spese dei miei viaggi furono coperte col mio danaro personale. Il danaro raccolto durante le S.S. Messe alla Chiesa (in media lire 600 la domenica) e quello nei giorni dei morti (in media lire 10.000) è utilizzato per la pulizia della Chiesa, l’acquisto dei ceroni per la lampada del SS. Sacramento, delle candele dell’altare, della luce, dei fiori. Se sopravanza qualche cosa, il danaro è adoperato per l’acquisto di oggetti più propriamente sacri. Così ultimamente ho acquistato un leggio di metallo (lire 27.000) un piattino per la S. Comunione, una teca”[17].

E ancora dalle pagine dell’Eco della Maddalena si ricava una cronaca vivida di ciò che accadeva durante i giorni della ricostruzione nel 1966: “Traduzioni. Sul frontale della porta della vecchia cappella che abbiamo ricostruito era scritto: Mihi et amicis meis – Per me e per i miei amici. Sul frontale del nuovo artistico portale ho fatto scrivere: Sanctae Mariae Magdalenae dicata – Dedicata a S. Maria Maddalena. Quando avrò danaro, all’abside farò fare una pittura in cui S. Maria Maddalena sia una figura di primo piano... Notizie Gradite. Abbiamo la gioia di pubblicare che il Consiglio Comunale di Morrone ha deliberato la costruzione della controporta della Chiesa della Maddalena. Al Sindaco, Ins. Silvio Oto e ai bravi consiglieri le più vive grazie. Josephine Giambusso a Jersey ha raccolto il danaro per comprare la Via Crucis. Nono sarà mesto, ma bello il tuo ultimo giorno, se saprai sollevare chi è nel bisogno. Why, if anyone gives you a cup of water to drink in my name, because you are Christ’s, I promise you, he shall not miss his reward (Mark 9, 41)”[18].

La chiesa della Maddalena venne benedetta dal vescovo mons. Pietro Santoro in un uggioso 27 dicembre del 1967, giorno di San Giovanni Apostolo, al quale la chiesa è anche dedicata. Nello stesso giorno fu consacrato l’altare di marmo, all’interno del quale il muratore Paolo Moscatello suggellò le sacre reliquie, che come racconta Carlo Iorio “corse una voce che furono quelle di santa Lucia, san Modesto e san Fortunato”. Alla messa cantata parteciparono numerosi sacerdoti: don Giulio Mastrogiacomo, arciprete di San Martino in Pensilis, don Salvatore Mucci, vicario vescovile e parroco di Larino, don Ottavio, parroco di Ripabottoni, don Daniele Fimiani, parroco di Morrone, le suore di San Paolo, giunte da Campobasso,  le suore dell’asilo di Morrone e la tanto amata suor Caterina dell’ordine di San Giuseppe di Larino. I canti furono intonati dagli allievi del Seminario di Larino. Tra le autorità civili vi era il segretario comunale Francesco Burgarella e il commissario prefettizio, Armando Cimino, essendo il sindaco Silvio Oto temporaneamente sospeso.

La vita di don Peppe si snodava attraverso i numerosi impegni della sua missione. Padre spirituale presso il Seminario di Larino, egli si divideva tra le attività di formazione e quelle parrocchiali, mai risparmiandosi. Ed è proprio il lavoro uno dei temi più presenti negli scritti di don Giuseppe Mustillo. Il pensiero correva spesso agli emigrati che avevano solcato gli oceani, abbandonando la loro terra per affrontare l’ignoto. Questo articolo, dal titolo Morrone passione del cuore, fu scritto nel 1985, nel giorno di San Giuseppe: “Ho iniziato a scrivere questi pensieri a voi oggi, 19 Marzo, festa di San Giuseppe, mentre un tiepido sole, dopo una invernata rigida, ci riscalda con i suoi benefici raggi. Si vede per le strade, vivificate da un soffio di primavera, qualche donnetta col piatto di legumi e qualche ragazzo con la pagnottella, tradizionali doni della devozione a San Giuseppe. Le montagne all’interno sono ancora tutte coperte di neve, e nella conca di Santa Maria Casalpiano non ancora appare il prodigio di tanti mandorli fioriti, simili, alla sommità del fusto, a cascate di fuochi d’artifizio, ma con i petali bianchi e rosa al riflesso del sole nascente. Non ancora le siepi sono fiorite d’albaspina, sono ancora poche e timide le pratoline alle rive dei ruscelli. Ma verranno i fiori più belli a rallegrarci, verranno le rondini, verrà il bel cielo azzurro, tesissimo, risciacquato di fresco dall’acquazzone di Maggio, il bel cielo di Morrone così bello, quant’è bello, così splendido, così in pace. Oggi, San Giuseppe, ho celebrato due Messe alla Maddalena, una alle 8 del mattino e una alle cinque del pomeriggio, e tutte e due affollate dal popolo raccolto in preghiera nel pensiero devoto del dolcissimo patriarca. Nella benedizione alla fine della Messa, la mia mente è andata oltre le mura della Chiesa, oltre il paese, lontano lontano, oltre gli oceani, è andato a voi cari emigrati per benedirvi con tanto amore e tanta passione”[19]. Egli stesso infaticabile nelle occupazioni quotidiane, non cessava mai, infatti, di sottolineare l’importanza di mantenere un sano equilibrio tra l’impegno verso le cose materiali e l’attenzione verso quelle spirituali. In questo articolo dal titolo Consonanza col supremo magistero, si rivolge ai morronesi per sollecitarli ad affrancarsi dalla materialità e a  perseguire non solo legittimi obiettivi terreni ma anche il benessere dell’anima: “Le mie parole sul lavoro, scritte il 19 marzo, trovano una superiore conferma in espressioni ben più alte e profonde che il Papa Giovanni Paolo II, celebrando quest’anno San Giuseppe con i lavoratori della Marsica, ha pronunciato in un messaggio al mondo da Telespazio nella piana del Fucino. Il lavoro è una dimensione fondamentale dell’esistenza umana. Il lavoro perfeziona l’uomo, lo rende più uomo. Il lavoro è fonte di ricchezza e di benessere. Il lavoro diventa in qualche modo prolungamento e compimento del progetto di Dio nel creato. Ma non basta il lavoro per realizzare la vocazione dell’uomo. Proprio nel sistema del lavoro adombrato dai giorni della creazione risuona il comando del Signore: Il settimo giorno è per onorare il Signore Dio Tuo. E’ proprio questo comando del Signore che i nostri agricoltori maggiormente trascurano. E allora sarebbe poco riconosciuta la dignità dell’uomo. Ci sarebbe il declino verso l’abbrutimento. I nostri agricoltori morronesi e di tutta l’Europa, nella grande maggioranza, non sono più agricoltori, sono imprenditori agricoli, provvisti dei più moderni mezzi di lavoro. La zappa e gli scarponi non sono più simbolo degli agricoltori. I campi sono tutti intersecati da strade camionabili. I lavoratori possono fare una enorme quantità di lavoro in più. Ma invece di ringraziare il Signore trascurano la Messa e il precetto del riposo festivo. Così l’altra dimensione del lavoro, quella cristiana è trascurata. L’uomo diventa schiavo del lavoro. Non è più signore ma servo”[20].

Egli era peraltro attento alla stridente dissonanza tra l’incalzante consumismo e la sofferenza umana: “Quando vediamo il progresso delle conquiste scientifiche, le immense metropoli simili, nella notte, ad oceani di piccole luci, la conquista degli spazi, le avventure cosmiche, proviamo quasi lo stesso stupore del primo prodigio della creazione. Ma le conquiste della tecnica sono conquiste del lavoro umano. Ammiriamo i tecnici e i lavoratori dell’immenso cantiere terrestre. Molte volte però penso ai malati, agli emarginati, ai sofferenti, agli esclusi da queste audacie del progresso che portano anche un più elevato tenore di vita personale e forse un nome e una risonanza nella storia. Agli ammalati, ai poveri, agli esclusi vorrei porgere una parola di conforto. Voi non siete ai margini della vita, siete al centro della vita. Voi non siate gli esclusi del progresso, ma i veri protagonisti dell’esistenza, purché sappiate unire le vostre sofferenze alle sofferenze di Cristo, che con la sua croce è al centro della storia, è il vero propulsore del progresso, perché è l’Autore della vita e del cosmo rinnovato. Vi è un mondo invisibile più bello di quello visibile: vi è il mondo della grazia, della bellezza dell’anima, dell’eroismo morale, della fortezza cristiana, della gloria che un giorno si aprirà ai vostri occhi. Nella sventura, nella solitudine, nel dolore, nelle angosce, perseverate nell’unione all’agonia di Cristo e conquisterete anche voi un popolo, avrete con Gesù in eredità le genti. Sarete voi i veri artefici della pace del mondo. L’apostolato della sofferenza è il più bello. Cristo imparò  l’ubbidienza dalle cose che patì. Una ubbidienza edulcorata dal successo e dal trionfalismo ha scarso valore. Una povertà decorosa, e una malattia rassegnata e offerta sono un tesoro per la Chiesa di Dio e controbilanciano l’edonismo, il consumismo e anche l’avidità di domino e di sopraffazione nei governanti, riscattando l’armonia tradita”[21].

Era il 1985, la ricostruzione durava già da quarant’anni ed ecco l’ipotesi di decorare la sommità delle pareti della Maddalena con vetrate istoriate, idea formulata dall’architetto Antonelli e accolta con entusiasmo dallo stesso don Peppe, come leggiamo sul n. 4 della rivista Eco della Maddalena: “Da questo giornalino mandiamo un saluto e un ringraziamento all’Ingegnere Dott. Cesare Antonelli, architetto della Chiesa, a cui si deve l’idea di collocare vetrate con scene della storia della salvezza, suggerimento che io accolsi subito con grande entusiasmo e scelsi i soggetti. Abbiamo fiducia che il Prof. Signorini, che esegue il lavoro, si ponga nell’alveo della grande tradizione artistica fiorentina”. Nello stesso numero della pubblicazione don Peppe si rivolgeva di nuovo agli emigrati: “L’ultimo traguardo. Cari emigrati morronesi del Canadà, degli Stati Uniti, del Venezuela, dell’Argentina, della Germania, della Svizzera, del Nord Italia e residenti al paese. Ancora una volta la mia voce si fa viva in mezzo a Voi. Non è più la voce di un giovane. Siamo infatti al tramonto e non all’alba, alla sera e non al mattino. Ma il tramonto ha per me un particolare fascino. Quando dal nostro Castello vedo dense nubi dove il sole tramonta, nuvole color rosso vivo o rosa pallido e altre oscure e minacciose, con qualche raggio luminoso che filtra tra esse, lo spettacolo si abbina sempre nella mia mente a un grande scenario come sfondo a una crocifissione, con una croce di colossali dimensioni e su di essa Gesù sanguinante e dolorante. Il mio cuore sussulta e sospira e sento un forte invito alla contemplazione, all’amore e al saggio operare perché quando l’Agnello verrà per le nozze ci trovi con la lampada accesa delle buone opere. Non vogliamo morire con le mani in mano, ma vogliamo operare sempre più intensamente, lavorando, pregando o soffrendo. Dunque cari amici la mia penna ha ancora da dirvi parole fiammanti. Non direte: ecco una nuova predica, una nuova sinfonia di Don Peppe con le note conclusive di una richiesta di aiuto. Non direte questo, perché voi tutti che mi conoscete, guardando indietro, alla vostra giovinezza, ricorderete come gli anni più blandi e tranquilli, animati da grande entusiasmo e allietati da sincera gioia, sono legati al ricordo dell’aiuto che mi avete dato per la costruzione della Chiesa di Santa Maria Maddalena. Noi abbiamo costruito un gioiello di Chiesa che parlerà di noi alle future generazioni di Morrone, e sarà un mezzo di formazione e trasformazione spirituale, continuerà il nostro apostolato quando non saremo più. Tutti quelli che guardano all’interno e all’esterno della Maddalena rimangono ammirati e soggiogati da uno stile sobrio, animato, ricco e aperto a ulteriore sviluppo artistico. Ultimamente abbiamo pensato di collocare, nei dieci finestroni a punta di diamante, 10 vetrate d’arte con le scene e le figure più significative della Storia della Salvezza: - La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre; - Il sacrificio di Abramo; - Mosè con le tavole della legge; - Il Re David; - La Natività di Gesù; - Il Battesimo di Gesù; - Il Discorso della Montagna o delle Beatitudini; - L’Ultima cena; - Il Getsemani; - Gesù risorto che appare alla Maddalena. Sono uno sviluppo artistico, corale e armonioso, istruttivo e pacificante con figure e scene incise su vetri colorati dalla Ditta Fontana di Sesto Fiorentino (Firenze) che sta già eseguendo 4 finestroni con le scene della Natività di Gesù, del Battesimo di Gesù, del Discorso della Montagna, dell’Ultima Cena. Con le vetrate d’arte la Chiesa sarà uno scrigno luminoso per la custodia della Santa Eucaristia dell’originale Tabernacolo posto accanto all’altare, e per la celebrazione della Santa Messa, l’atto centrale del culto cristiano dove ci immoliamo con Gesù al Padre per la nostra salvezza e la salvezza del mondo. Quando saranno complete le rifiniture e i lavori necessari per togliere le macchie di umidità, la Chiesa sarà un purissimo e caldo riflesso del nostro purissimo e caldo amore a Gesù “Che bell’altare” disse il nostro Vescovo, Mons. Cosmo Francesco Ruppi quando venne due anni fa per la Visita Pastorale. Ma voi sapete quanti sacrifici ho fatto per l’altare perché per esso mi sono recato negli Stati Uniti a raccogliere offerte”.

IN quella stessa estate la ditta Fontana Quentin di Sesto Fiorentino procedeva alla produzione delle dieci vetrate artistiche, realizzate in vetro antico Saint Just, dipinte con grisaglia, cotte a gran fuoco, rilegate in trafila di piombo e inserite in climalit (camera d’aria). Ogni vetrata, alta tre metri e larga 75 cm, aveva un costo di 2.642.000 lire che era comprensivo della posa in opera di cui si doveva occupare il geom. Domenico Iorio,.

Mai dimentico dei giovani don Peppe a loro indirizza questo scritto: “L’avvenire è dei giovani” ripete spesso il Papa Giovanni Paolo II. Ma a condizione che essi sappiano vivere con serietà la loro vita, operando una scelta fondamentale: quella del Signore Gesù, del suo insegnamento. Della sua sequele, della sua luce, ed anche della sua croce, quando ci chiama a una vocazione di sofferenza. Perché tutto è bello nella vita quando si vive nella luce e amore di Cristo. Dio sarà infallibilmente fedele se noi saremo fedeli. Orbene guardando al vostro passato, alla vostra giovinezza, all’aiuto che mi avete dato nella costruzione della Chiesa, come all’aiuto che avete dato alle opere religiose della Nazione che vi ospita, voi vi accorgerete che è proprio questo impegno per le opere buone che vi darà la sensazione di aver vissuto con serietà la vostra giovinezza. Sarà proprio l’impegno per il bene, nel sostegno dell’azione pastorale dei vostri della stessa razza e della stessa religione che si combattono fino allo sterminio vicendevole, il solo mezzo per non sentirci disertori, è di prendere il nostro posto in trincea: quello del cristiano che sa sacrificarsi per la sua famiglia e insieme per il prossimo che è nel bisogno, quello di saper morire per un ideale, quello del seme che, come dice Gesù, sa marcire nel terreno perché spunti il segno perenne della vita: la spiga biondeggiante, una vitalità irresistibile di benedizione”[22].

Dopo oltre quarant’anni di operosa attività, giunge il documento ufficiale dal Vescovado di Larino, con il quale si conferisce la rettoria della chiesa della Maddalena al rev. don Giuseppe Mustillo. Alla comunicazione il vescovo Ruppi acclude una affettuosa nota di ringraziamento per il grande lavoro svolto.

 

 

di Giovanni Mastromonaco

 

La Maddalena

 

Dai ruderi sorge

imponente e pregiata

in pietra intagliata

la Maddalena.

 

Con braccia ferree

mani artigiane

e la volontà tenace

di Don Peppe pure:

il miracolo appare!

 

Fra le sue mura

il Vangelo risuona,

la Fede si rifugia.

E la Maddalena vive

nella storia,

nei cuori.

 

Ammirata dal passante

baciata dal sole,

accarezzata dal vento

e da esotici aromi.

 

E così sfiderà il Tempo:

sempre più grigia,

sempre più bella!

 

 

Nel 1989 don Peppe sente avvicinarsi l’ora dell’addio e scrive il suo testamento spirituale: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo Stendo questo Testamento per quanti mi vogliono bene e per il popolo di Morrone per il quale ho esercitato il mio apostolato per lo spazio di 40 anni e per il quale ho costruito una Chiesa Nuova. Lo compongo soprattutto per la gloria di Dio per dimostrare il mio amore a Gesù. Al limite della mia vita e al termine dei miei 74 anni non mi riconosco sacerdote fervoroso. Penso alla maggioranza dei confratelli più riusciti di me nel campo dell’apostolato e con più vasto raggio di azione e più profondità e più coerenza di vita. Ma intendo vivere quel che mi rimane ancora con totale dedizione a Dio e con l’offerta amabile delle mie pene e sofferenze. L’unico rincrescimento è quello di non essermi fatto santo. Ma spero di vivere santamente la prova suprema con l’aiuto di Dio. Mi esamino nelle virtù. L’amore a Dio e al prossimo. Mi riconosco deficiente nell’uno e nell’altro. Per amare veramente Dio è necessario il distacco non solo dal peccato, ma anche dal fascino delle cose create. La bellezza delle creature oscura il bene e travolge l’animo senza malizia (Sapienza 1-16).Spero di aumentare nell’amore con l’aumento delle sofferenze. Specialmente all’approssimarsi della fine le sofferenze purificano l’anima nel mentre la distaccano dalle cose mondane. L’amore al prossimo. Non ho avuto modo di aiutare i bisognosi e così crescere nell’amore del prossimo. Ho modo però di arricchirmi tacendo dinanzi alle numerose critiche ricolte a tutto il settore del mio operare. Spero di diventare migliore perdonando a tutti e chiedendo perdono a tutti. Dalle molte tribolazioni deduco che Gesù mi ha associato alla sua morte e quindi a compiere il più grande atto di amore verso il prossimo”.

Una delle ultime azioni di don Peppe fu quella di donare dieci milioni di lire all’infanzia abbandonata, accompagnando il gesto con semplici parole: “Il fondo Culto mi ha dato questi soldi e al fondo Culto li restituisco”. L’atto di generosità colpì molto la sensibilità del Papa, che volle ringraziarlo con una lettera.

Don Peppe morì il 21 giugno del 1997 a 82 anni, nel giorno di quel Santo al quale la madre lo aveva tante volte accostato per la dedizione e il coraggio, san Luigi. I funerali furono officiati dal vescovo mons. D’Ambrosio e venti sacerdoti, nella commozione dell’intera comunità.

Così lo ha ricordato, in un articolo dal titolo Don Peppe, figura da ricordare sulle pagine di un quotidiano locale, Michele Urbano: “Ordinato da Mons. Bernacchia 56 anni fa, don Mustillo ha lavorato alla formazione dei giovani seminaristi nei seminari di Termoli e Larino come Padre spirituale, Professore di latino e di greco, Dottore in sacra teologia, scrittore di alcune pubblicazioni di ampio respiro teologico. Ha pubblicato nel 1977 Le relazioni trinitarie in Sant’Agostino e San Tommaso, dove traspare la sua profonda conoscenza teologica arricchita dalla conoscenza delle lingue antiche e moderne. Don Peppe, come veniva chiamato a Morrone, ha insegnato alla gente le cose della fede. Ha parlato con il loro linguaggio dell’evangelio, quello semplice che fa breccia nel cuore di ogni uomo. Un’intera generazione è stata formata dalla sua testimonianza discreta e umile. Bambini, giovani, adulti, tutti hanno beneficiato dell’insegnamento di don Peppe. Un uomo di vera carità, avvalorata da gesti concreti, di solidarietà sinceri e segreti. Se abbiamo perso un uomo di saggezza e di sapienza, ha detto don Mario Colavita, parroco, abbiamo guadagnato un intercessore presso Dio. La testimonianza di don Peppe non passerà e questo la gente di Morrone lo sa”[23].

Vittorio Mastromonaco, nel suo personale ricordo di don Peppe, scrisse: “L’esempio della sua vita è ora un incoraggiamento, una speranza per tutti noi che gli volemmo e gli vogliamo ancora bene; e tutti i morronesi, sotto ogni cielo, ne conserveranno in futuro il ricordo”[24].

E questo fu il discorso del sindaco allora in carica, Angelo Iorio: “Con la dipartita dalla vita terrena di don Giuseppe Mustillo, oggi salutiamo la coscienza morale di Morrone, salutiamo il professore, il teologo, salutiamo colui che ha lavorato tanto perché la nostra comunità progredisse e si sviluppasse nel nome e sull’esempio tracciato da Nostro Signore e soprattutto perché* conservasse intatti ed inalterati i valori fondamentali dell’esistenza umana: la famiglia, il rispetto del prossimo, il senso del lavoro e il vivere cristiano, salutiamo lo scrittore, il filosofo cha ha propagandato la cultura, anche morronese, al di là dei confini della nostra regione. Salutiamo il sacerdote, il missionario, il pastore, l’essere umano. Con la sua proverbiale modestia e umiltà ha saputo sempre dare a tutti indistintamente non solo un esempio di vita cristiana ma anche una parola di conforto, di incoraggiamento e di speranza. Lo vogliamo ricordare, anche come giovane ed intraprendente sacerdote, che, lasciando tante volte il paese natio, ha svolto con abnegazione ed altruismo la missione pastorale, tra i numerosi emigranti morronese nelle lontane Americhe del Nord e del Sud, dove, spinto anche da un profondo spirito di iniziativa, ha raccolto fondi e contributi per portare a compimento, con immensi sacrifici la Chiesa della Maddalena. Tale caratteristico tempio, costruito in pietra locale, dagli artigiani scalpellini morronesi, resterà per sempre, per noi tutti e per le future generazioni, non solo un luogo di preghiera, di raccoglimento e di culto, ma sarà la perenne e vivente testimonianza della sua attività e della sua opera meritoria ed instancabile sempre in direzione della diffusione della parola e dell’insegnamento di Cristo. Ci piace dare atto anche del suo essere umile, schivo, generoso, sempre pronto e disponibile per svolgere l’alta funzione di discepolo del Signore in mezzo ai contadini, agli umili ai più bisognosi e ai giovani morronesi.Caro don Peppe, tu ci hai insegnato, in tante occasioni, che la morte porta via l’uomo, la persona, la materia, ma non certamente le sue idee, le sue opere, il suo insegnamento. Tu hai sempre detto, durante le omelie pronunziate in occasione della morte dei nostri cari, di non disperarsi, di non soffrire, di non addolorarsi, di non piangere perché nell’aldilà ci aspetta una vita sicuramente migliore. Oggi questa stessa tua frase la rivolgiamo forte forte, profondamente commossi e costernati soprattutto alla tua diletta sorella Antonietta e a tutti i tuoi cari ma anche a quanti soffrono per la tua scomparsa terrena. Caro don Peppe tu ci lasci in eredità, oltre alla chiesa della Maddalena, oltre innumerevoli esempi di bene, oltre i pregevoli scritti, che adesso assumono un significato ancora più profondo, ci lasci soprattutto il ricordo della tua umiltà, semplicità, della generosità... difficile sarà dimenticarti certi, però, dell’esempio che hai voluto dare alle nuove generazioni. Arrivederci don Peppe e grazie, dal profondo del cuore per quanto hai fatto per l’intera nostra comunità e soprattutto grazie per quello che ci hai insegnato”[25].

 

 

di san Luigi Gonzaga

 

Guardati dall’offendere

l’infinita bontà divina,

piangendo come morto

chi vive al cospetto di Dio

e che con la sua intercessione

può venire incontro

alle tue necessità

molto più che in questa vita.

La separazione non sarà lunga.

Ci rivedremo in cielo

e insieme uniti all’Autore

della nostra salvezza

godremo gioie immortali,

lodandolo con tutta la capacità dell’anima

e cantando senza fine le sue grazie.

Egli ci toglie quello

che prima ci aveva dato

solo per riporlo

in un luogo più sicuro

e inviolabile

e per ornarci di quei beni

che noi stessi sceglieremmo.

 

 

 

 

Alcuni pensieri spirituali di Don Peppe

 

Tutto concorre al bene di quelli che amano il Signore. Quindi in tutte le circostanze della vita bisogna avere sempre fiducia (31 ottobre 1988)

Tante croci, tante sofferenze, tante umiliazioni, tante incomprensioni possono essere il segno che Dio ci assegni una meta più alta di santità e una corona più fulgida (31 ottobre 1988)

In tante circostanze abbiamo il desiderio quasi invincibile di chiarire, di difenderci, di accusare gli altri. Non è meglio tacere e far parlare la realtà? Non colui che si raccomanda da sé è approvato da Dio, ma colui che Dio raccomanda (21 novembre 1988)

Chi persevererà sino alla fine sarà salvo. Preziosa al cospetto del Signore è la morte dei suoi santi. La morte è come il martirio. Chi l’accetta con la pace e nell’amore dà una testimonianza a Gesù come nel martirio. Vive in pieno l’insegnamento del Signore. Vale più la sofferenza rassegnata e offerta per le anime che tutti i tesori e la gloria del mondo (6 dicembre 1988)

Signore Gesù, tu non puoi più soffrire. Eccomi per fare la Tua volontà. Accetta le mie pene e i miei dolori per la salvezza delle anime e la diffusione del Tuo Regno. Vergine Immacolata, in questo poco tempo che mi rimane a vivere, fa che io sia un piccolo riflesso della Tua bontà e purezza. Fiducia, sempre fiducia. Madre mia, fiducia mia (7 dicembre 1988)

Quando l’offerta della nostra vita al Signore è totale, allora la sua presenza diventa crocifiggente ma anche trasformante e santificante (16 dicembre 1988)

Il passaggio attraverso la Croce è condizione necessaria per arrivare alla creazione nuova. (Giovanni Paolo II). Ma i cieli nuovi e la terra nuova ci sono già quando la mano e il cuore sono carità (11 maggio 1989)

San Bartolomeo. Il tempo che mi resta da vivere si accorcia. Voglio vivere nell’amore. E’ la sofferenza che sostiene il mondo. Con tutte le forze voglio aiutare Gesù a salvarlo. Mai avrei potuto salvare le anime come in questi giorni, senza speranze umane e pieni di sofferenze fisiche e morali (24 agosto 1989)

Qual è l’insegnamento più bello di San Francesco? E’ la gioia nelle pene, nelle sofferenze. La letizia nella suprema rinunzia. “Beati quelli che sopporteranno infermitate e tribolazione. Beati quelli che le sopporteranno in pace, che da te altissimo saranno incoronati”. In Francesco non c’è solo la letizia nei mali che il Signore ci manda, ma anche la letizia nel dono spontaneo delle privazioni liberamente scelte che culminano sul “duro sasso della Verna”. In Francesco la santità è mundizia e castitate angelica e le sue ascesi verso Dio sono come il volo dell’angelo. Ma l’amore è la fiamma più grande. Lo spogliamento completo da tutto è divenuta ricchezza che ha alimentato una infinità di opere in tutti i tempi per alleviare le sofferenze dei poveri, messaggero di pace. Dove è odio che io porti amore (4 ottobre 1989)

Il tempo che non soffro mi pare tempo inutile, il tempo che soffro mi sembra di valore eterno. Certo se non si ha salute non si può lavorare. Ma se il Signore ci chiama sostituirlo sulla Croce, facciamolo con amore e gioia (1 ottobre 1989)

Signore, quanto soffro! Ma ti prego con Sant’Agostino: “Qui taglia, qui brucia, qui non perdonare, perché tu possa perdonare eternamente” (10 ottobre 1989)

Signore non voglio essere felice senza di Te. Non vorrei essere ricco senza di Te. Non vorrei essere triste senza di Te, perché essere ricco senza di Te è disperazione. Essere sapiente senza di Te è buio fitto di una notte senza stelle e ignoranza somma (23 maggio 1992)

Quando sei tentato pensa a Gesù in Croce, non ti allontanare da Lui e supererai la prova. Sembra una cosa ovvia. Eppure la dimentichiamo (23 febbraio 1993)

 

 

Testimonianze

 

Don Peppe, esempio di vita

di Roberta Colasurdo

 

Quando si inizia un viaggio nelle pieghe della memoria, per ricordare un evento, una vicenda, una persona, come in questo caso, le cose che emergono sono episodi, frasi, risa e sembra tutto confuso, le immagini fanno a botte fra loro per quella che deve emergere più prepotentemente, avendo l’impressione che sia quasi difficile poter ricordare con chiarezza. Volendo ordinare i tanti ricordi posso iniziare questo mio piccolo racconto su che cosa è stato per me, per la mia vita da ragazzina, e poi da adolescente, la persona di Don Giuseppe Mustillo.

Don Peppe, così familiarmente da tutti chiamato, è stata la persona che mi ha permesso di scoprire la fede e la voglia, da adulta, di essere un’educatrice, la persona che ha fatto sentire importante me come tutti i ragazzini miei coetanei. Don Peppe era la persona sempre disposta a trascorrere del tempo coi giovani, a dar loro fiducia, a regalare spensieratezza, a dar loro un luogo dove incontrarsi (la sala Don Bosco sottostante la chiesa della Maddalena), per giocare o semplicemente per non stare buttati in mezzo ad una strada. Infatti, la Sala Don Bosco era arredata con tanti giochi e strumenti musicali, non risparmiandosi di comprarne sempre di nuovi.

Don Peppe era una persona silenziosa, discreta, ma indimenticabili sono le sue risate ed i suoi insegnamenti canori (ricordo ancora l’inno di “Don Bosco” o il canto “13 maggio” sulla Madonna cui lui era molto devoto) o le tombolate natalizie con la possibilità di vincere torroni, panettoni e caramelle. L’idea era di creare un oratorio con tanti ragazzi così come aveva fatto S. Giovanni Bosco e di trasmettere quello spirito goliardico e religioso del santo. Non a caso il 31 gennaio era sempre festa per noi ragazzi e per chi volesse partecipare alla messa ed ai festeggiamenti “culinari” nella Sala a lui dedicata. Riusciva a raccogliere attorno a sé ragazzi e giovani senza troppe parole, la sua fede era semplicemente stare con loro, stare con noi.

La prima cosa che ricordo e dalla quale tutto è iniziato è l’ACR (Azione Cattolica Ragazzi). A quel tempo i nostri educatori erano Dora Cinelli, Maria Assunta Alfieri, Vanna Minotti e Antonio Colasurdo. Attraverso l’ACR noi ragazzini abbiamo scoperto che si poteva stare insieme, giocare, ridere ed anche pregare; abbiamo conosciuto un Dio tenero, accogliente, amorevole pronto a sostenerci, seppur in quei tempi di tutto questo non eravamo ancora consapevoli..

C’incontravamo, cantavamo, giocavamo, pregavamo e tutto aveva un sapore speciale perché eravamo insieme ai nostri amici e c’erano delle persone sempre disponibili e vicine a noi. Iniziarono così le prime esperienze dei campi scuola, gli incontri diocesani con altri ragazzi, i raduni.

La presenza discreta di Don Peppe, fece sì che gli impegni di noi ragazzini nella Parrocchia diventassero sempre più importanti: le mansioni di chierichetto, riservate però, per espresso volere del sacerdote, ai soli ragazzi; le prime letture in Chiesa; la rappresentazione del Presepe vivente durante le funzioni natalizie; le letture durante i venerdì di quaresima della Via Crucis; le pulizie della Chiesa della Maddalena (lasciando a noi ragazzine le chiavi e la possibilità di andarci come e quando volevamo); la devozione alla Vergine Maria, vivendo il mese di maggio, imparando e recitando il Santo rosario.

A questo proposito è doveroso ricordare anche la sorella di don Peppe, Antonietta Mustillo. La sua presenza è stata sempre costante e vicina al fratello sia nella preghiera sia nell’organizzare dolcetti in occasione della festa di S. Giovanni Bosco o pranzetti per i partecipanti del mese di maggio, pranzo che diventava sempre una gita in campagna per trascorrere così una giornata in allegria e spensieratezza.

Ricordo con un po’ di stretta al cuore, e questo perché i ricordi si intrecciano un po’ più da vicino con quelli della mia famiglia, anche la messa durante il mese di maggio, presso la Madonna di Vallecupa. Un po’ di nostalgia mi assale perché molte di quelle persone impegnate affinché ogni anno durante il mese di maggio fosse celebrata una messa presso la piccola Madonnina posta sui tufi di Vallecupa, ora non ci sono più.

Da quando Don Peppe non ebbe più le forze di andare dai “vallacupari”, mangiare con loro, confessarli e vivere il mistero dell’eucaristia la tradizione gradualmente è scomparsa, così come le persone che l’hanno realizzata negli anni. Pensare a tutto questo può mettere un po’ di malinconia: ricordare un periodo sereno e spensierato come può essere quello che si vive da ragazzini, pensare a persone che ora non sono più visibili nel nostro cammino, ma in fondo ai ricordi resta la concreta consapevolezza di un grande insegnamento di vita che nessuno potrà cancellare, che mi ha permesso di essere la persona che sono oggi e di come tante mie scelte sono state fatte alla luce di una fede acquisita, non con tante parole, ma con tante esperienze, con tanta preghiera e con un esempio reale che è stato Don Giuseppe Mustillo.

 

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Non è certamente passato invano...

di Gennaro Barone (21 giugno 2000)

 

 

Ricorre in questi giorni il terzo anniversario della scomparsa di don Peppe Mustillo, un’altra indimenticabile pietra miliare di Morrone, che certamente ha contribuito in larga parte a caratterizzarne la storia di questi ultimi anni.

Questa non è una sua biografia: non sarei in grado di stenderla non avendo i necessari approfonditi elementi conoscitivi. Voglio però in questo contesto sottolineare alcuni aspetti della sua personalità, ovviamente a me noti, che gli hanno consentito di avere con Morrone e i suoi abitanti un rapporto del tutto particolare, probabilmente da riscoprire senza alcun tornaconto, sfidando in qualche occasione anche ingiuste incomprensioni.

Lo avevo ascoltato numerose volte nelle sue prediche caratterizzate più che altro da quella inconfondibile voce possente ed impostata, forse mai modulata da un invalidante calo dell’udito che gli causava qualche problema di comunicazione con gli altri. E proprio quella singolare modalità di parlare mi aveva sovente distolto dal seguire i contenuti delle sue animose omelie, giudicate forse dagli ascoltatori (me compreso) più per le improvvise impennate di voce che per i messaggi che essa voleva trasmettere.

Un po’ per questo, un po’ perché “nemo est propheta in patria”, il caro don Peppe, seppur amato in vita, è andato ad infoltire la numerosa schiera di coloro che sono apprezzati e rimpianti per quello che effettivamente valgono, solo quando non ci sono più.

Di animo semplice, trasparente, coerente fino alle conseguenze estreme, si è prodigato nell’ultima parte del suo apostolato sacerdotale, esclusivamente per la sua Morrone, vivendo in umiltà e sorretto da un incrollabile spirito di servizio. Il non avere incarichi ufficiali, lo ha ovviamente privato di mezzi di sostentamento costanti e sicuri e ciò, bisogna sottolinearlo, nobilita e avvalora di più il suo essere stato pastore di anime, anche senza avere in affidamento uno specifico gregge.

Da quando ho cominciato a frequentare Morrone, mi aveva sempre incuriosito quella figura di altri tempi vestito in modo tradizionale, rigido nei principi, riservato, attento a non destare negli altri la benché minima critica, essenziale nel saluto e nel rapporto col prossimo.

Negli anni in cui si leggeva don Milani, si diffondevano le Comunità di Base, ci si ispirava a Don Franzoni e ai Cristiani per il Socialismo, agli occhi di chi (come me) dava prioritaria importanza all’impegno sociale della chiesa, il povero don Peppe appariva come un concreto esempio di chiesa pre-conciliare attenta in gran parte alla forma e alle sole cose dello spirito.

E in effetti lui era un vero asceta, incline alla meditazione probabilmente praticata anche durante le lunghe passeggiate, fatte in solitudine sulla rotabile che porta al cimitero, stringendo immancabilmente tra le mani i grani del suo Rosario. In un paese in rapido calo demografico, dove a chi vuole lavorare altro non resta che cambiare residenza o nazionalità, mi chiedevo che ruolo positivo potesse avere la chiesa se i suoi rappresentanti operavano come don Peppe. Mi sbagliavo...

Un giorno di qualche anno fa, avendolo incontrato per strada, colsi nel suo consueto rispettoso saluto, l’intenzione di fermarsi e di scambiare qualche parola. Lo feci volentieri prendendo al volo l’occasione di soddisfare tante mie curiosità su quel particolare prete.

Parlammo a lungo (credo un paio d’ore senza che me ne accorgessi) spaziando da argomenti di etica a problemi esistenziali di un certo spessore.  Mi sentii veramente a mio agio, sorpreso di trovarmi di fronte ad una persona che credevo fosse diversa. Inevitabilmente si parlò del paese, dei suoi problemi, dei malati, degli anziani soli, della solitudine... Erano temi sui quali in effetti doveva aver a lungo “meditato”, vista la precisa analisi che ne faceva, con chiarezza quasi scientifica. E poi i giovani, la carenza di valori, la disgregazione delle famiglie, il dramma della disoccupazione, la mancanza di solidarietà...

Ma dov’era l’improduttivo asceta? Ma chi mi trovavo di fronte?

Piacevolmente sorpreso da quella inaspettata scoperta, da quel giorno seguii con maggiore attenzione i “movimenti” di don Peppe che comunque in giro, cosa nota a tutti, si mostrava poco.

Lo vidi qualche settimana dopo (erano circa le 13) con un pentolino ben chiuso stretto tra le mani, inforcare una “ruera di capemmont” e sparire furtivo in un umile portoncino, bene attento a non farsi notare.

Chiesi informazioni in merito ad un’anziana signora che, abitando in quella zona, stava seduta davanti casa sua, con un occhio sul lenzuolo che stava ricamando e con l’altro pronto a registrare quanto accadeva nel circondario. Seppi da lei che da tempo don Peppe divideva il suo frugale pranzo con un anziano malato, offrendogli così anche il conforto di un po’ di compagnia.

Toccai con mano come il giudizio formulato su una persona, nella realtà potesse essere totalmente sbagliato.

Posi così maggiore attenzione alle sue omelie ascoltandole al di là della voce impostata e possente e delle sue improvvise impennate. Capii che don Peppe non poteva non esistere e che per Morrone era davvero importante. Le sue opere non sbandierate, silenziose e discrete, credo che siano le cose più preziose che resteranno di lui.

Non mi dilungo più per non cadere in una retorica celebrativa.

Don Peppe nel 1981 curò la preparazione al matrimonio dei giovani fidanzati di quell’epoca. Lo frequentai di buon grado e con vivo interesse.

All’ultimo incontro colle fare un dono a tutti noi, “un qualcosa - disse - che avrebbe dovuto accompagnarci per l’intera vita e che non avremmo mai dovuto dimenticare”. Tirò fuori dalle tasche del suo lungo abito scuro, sette foglietti e li consegnò ai futuri “capi-famiglia” dopo averne letto il contenuto. Sul foglietto che toccò a me (era una pagina di un vecchio quaderno) era riportata, scritta di suo pugno questa frase tratta dai Promessi Sposi: “...Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande...”

Era fatto così don Peppe, umile pastore di anime, fedele operaio della vigna del Signore, operoso nel silenzio, riservato e semplice. Non è certamente passato invano...

 

 

 

Alcuni ultimi pensieri spirituali di Don Peppe

 

Tutto concorre al bene di quelli che amano il Signore. Quindi in tutte le circostanze della vita bisogna avere sempre fiducia.

31 ottobre 1988

 

Tante croci, tante sofferenze, tante umiliazioni, tante incomprensioni possono essere il segno che Dio ci assegni una meta più alta di santità e una corona più fulgida.

31 ottobre 1988

 

In tante circostanze abbiamo il desiderio quasi invincibile di chiarire, di difenderci, di accusare gli altri. Non è meglio tacere e far parlare la realtà? Non colui che si raccomanda da sé è approvato da Dio, ma colui che Dio raccomanda.

21 novembre 1988

 

Chi persevererà sino alla fine sarà salvo. Preziosa al cospetto del Signore è la morte dei suoi santi. La morte è come il martirio.

Chi l’accetta con la pace e nell’amore dà una testimonianza a Gesù come nel martirio.

Vive in pieno l’insegnamento del Signore. Vale più la sofferenza rassegnata e offerta per le anime che tutti i tesori e la gloria del mondo.

6 dicembre 1988

Signore Gesù, tu non puoi più soffrire. Eccomi per fare la Tua volontà. Accetta le mie pene e i miei dolori per la salvezza delle anime e la diffusione del Tuo Regno. Vergine Immacolata, in questo poco tempo che mi rimane a vivere, fa che io sia un piccolo riflesso della Tua bontà e purezza. Fiducia, sempre fiducia. Madre mia, fiducia mia.

7 dicembre 1988

 

Quando l’offerta della nostra vita al Signore è totale, allora la sua presenza diventa crocifiggente ma anche trasformante e santificante.

16 dicembre 1988

 

Il passaggio attraverso la Croce è condizione necessaria per arrivare alla creazione nuova. (Giovanni Paolo II). Ma i cieli nuovi e la terra nuova ci sono già quando la mano e il cuore sono carità.

11 maggio 1989

 

San Bartolomeo. Il tempo che mi resta da vivere si accorcia. Voglio vivere nell’amore. E’ la sofferenza che sostiene il mondo. Con tutte le forze voglio aiutare Gesù a salvarlo. Mai avrei potuto salvare le anime come in questi giorni, senza speranze umane e pieni di sofferenze fisiche e morali.

24 agosto 1989

Qual è l’insegnamento più bello di San Francesco? E’ la gioia nelle pene, nelle sofferenze. La letizia nella suprema rinunzia. “Beati quelli che sopporteranno infermitate e tribolazione. Beati quelli che le sopporteranno in pace, che da te altissimo saranno incoronati”. In Francesco non c’è solo la letizia nei mali che il Signore ci manda, ma anche la letizia nel dono spontaneo delle privazioni liberamente scelte che culminano sul “duro sasso della Verna”. In Francesco la santità è mundizia e castitate angelica e le sue ascesi verso Dio sono come il volo dell’angelo. Ma l’amore è la fiamma più grande.

Lo spogliamento completo da tutto è divenuta ricchezza che ha alimentato una infinità di opere in tutti i tempi per alleviare le sofferenze dei poveri, messaggero di pace. Dove è odio che io porti amore.

4 ottobre 1989

 

Il tempo che non soffro mi pare tempo inutile, il tempo che soffro mi sembra di valore eterno. Certo se non si ha salute non si può lavorare. Ma se il Signore ci chiama sostituirlo sulla Croce, facciamolo con amore e gioia.

1 ottobre 1989

 

Signore, quanto soffro! Ma ti prego con Sant’Agostino: “Qui taglia, qui brucia, qui non perdonare, perché tu possa perdonare eternamente”.

10 ottobre 1989

Signore non voglio essere felice senza di Te. Non vorrei essere ricco senza di Te. Non vorre essere triste senza di Te, perché essere ricco senza di Te è disperazione. Essere sapiente senza di Te è buio fitto di una notte senza stelle e ignoranza somma.

23 maggio 1992

 

Quando sei tentato pensa a Gesù in Croce, non ti allontanare da Lui e supererai la prova. Sembra una cosa ovvia. Eppure la dimentichiamo.

23 febbraio 1993

 

 

 

 

Guardati dall’offendere

l’infinita bontà divina,

piangendo come morto

chi vive al cospetto di Dio

e che con la sua intercessione

può venire incontro

alle tue necessità

molto più che in questa vita.

La separazione non sarà lunga.

Ci rivedremo in cielo

e insieme uniti all’Autore

della nostra salvezza

godremo gioie immortali,

lodandolo con tutta la capacità dell’anima

e cantando senza fine le sue grazie.

Egli ci toglie quello

che prima ci aveva dato

solo per riporlo

in un luogo più sicuro

e inviolabile

e per ornarci di quei beni

che noi stessi sceglieremmo.

 

San Luigi Gonzaga

 

 

 

Ringraziamenti

Ringrazio don Gabriele Tamilia e don Mario Colavita per avermi incoraggiata sul cammino. Un pensiero speciale al compianto Mons. Ruppi, che accolse con favore l’opera acconsentendo a scriverne la prefazione.

A Tonio, che con affetto sempre mi sostiene e aiuta in ogni iniziativa.

A mia madre Jolanda, per avermi trasmesso l’amore per questa terra e per la nostra cultura e a mia sorella Claudia e suo marito Stefano per il loro esempio.

A Saverio e Maria, per i consigli e la generosità.

Un grazie all’instancabile amico della cultura Giuseppe Storto, per aver concesso la riproduzione del suo prezioso archivio documentale e iconografico.

Ad Angela Mastromonaco e a suo marito Gianni Fortunato per aver messo a disposizione i testi del papà Vittorio Mastromonaco.

Per la squisita gentilezza un grazie al responsabile dell’Archivio diocesano di Termoli e Larino, Giuseppe Mammarella.

Agli amici Padovo Alfonso, Gennaro Barone, Giovanna Colasurdo, Roberta Colasurdo, Renato Immucci, Giovanni Mastromonaco, Maria Mastromonaco e Angelo Mustillo per le testimonianze, i documenti e i ricordi che hanno voluto condividere con i lettori di queste righe.

Un grazie postumo al buono e paziente Carlo Iorio che affidando ad un quaderno le sue memorie ha permesso di ricostruire le fasi della ricostruzione della chiesa di Santa Maria Maddalena.

Grazie soprattutto a don Peppe, per averci consegnato un ricordo così prezioso, modello di virtù e di impegno e alla sua amatissima sorella Antonietta, per avermi consentito di raccontare una storia così bella. A lei va il mio abbraccio affettuoso, con il grande rammarico di non essere riuscita a completare questo umile lavoro prima che ci lasciasse.

 

Stefania Pedrazzi

 

 

 

 

La Maddalena

di Giovanni Mastromonaco

 

Dai ruderi sorge

imponente e pregiata

in pietra intagliata

la Maddalena.

 

Con braccia ferree

mani artigiane

e la volontà tenace

di Don Peppe pure:

il miracolo appare!

 

Fra le sue mura

il Vangelo risuona,

la Fede si rifugia.

E la Maddalena vive

nella storia,

nei cuori.

 

Ammirata dal passante

baciata dal sole,

accarezzata dal vento

e da esotici aromi.

 

E così sfiderà il Tempo:

sempre più grigia,

sempre più bella!

 



 

[1] Gino Luigi Parente, Appunti storici su Morrone del Sannio, Campobasso, Amministrazione Comunale di Morrone del Sannio, 1988.

[2] Vittorio Mastromonaco, in Il Morronese. Trimestrale edito dalla Parrocchia S. Maria Maggiore, Anno 1, n. 3-4, , Morrone del Sannio, agosto-dicembre 1997, p. 2.

[3] Vittorio Mastromonaco, in Il Morronese. Trimestrale edito dalla Parrocchia S. Maria Maggiore, op. cit.

[4] Giovanni Andrea Tria, Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, Roma, 1744. Il testo è stato nuovamente dato alle stampe a cura di Cosmo Iannone Editore nel 1988 a Isernia.

[5] Carlo Iorio, Memoriale, manoscritto conservato nella chiesa di Santa Maria Maddalena, Morrone del Sannio. Aggiunge inoltre Carlo Iorio: “ Li ricordo in mia fanciullezza: Sacerdote Don Domenico Iorio e Geo. Don Peppe Iorio erano fratelli venivano soprannominate (Leandro). Don Peppe era il padre del Farmacista)”.

[6] Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Stab. Tipografico Luigi Pierro e Figlio, Napoli, 1914 (n.e. Tipolitografia Lampo, 1988, Campobasso).

[7] Carlo Iorio, op. cit.

[8] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 3, Campobasso , aprile 1966, p. 5. Testo originale:  The most beautiful hours I spent in U.S.A. and Canada were with children. Once I had near my knees a little boy (the grandchild of Peter d’Amato). I caressed his face and his golden curls. The child was happy and suddenly said: Pick me up. Another time I was speaking to the eleven-year-old son of Josephine Giambusso about his service in Church and suddenly his youngest brother, perhaps 5 years old, pointing the forefinger of his little hand towards me, said: and were you an altar-boy as well? Another time I was in the car of Joseph Ambrosio  on a trip and his little son was sitting on the back seat. I saw a cow in the meadow and not remembering what the word was in English, I asked Joseph. The little boy (on my right in the photo) soon cried out: The cow makes the milk. The English language in the mouth of children seemed to me a sweet melody. I loved to stay with them and I remembered the words of Jesus: Let the children come to me, do not keep them back; the kingdom of God belongs to such as these. I tell you truthfully, the man who does not welcome the kingdom of God like a child, will never enter into it. ‘And so he embraced them, laid his hands upon them, and blessed them’ (Mark 10, 14). We, with strength of our will, must make our hearts like the hearts of children by walking, in this world of pride by walking, in this world of pride and outward display, in the humble ways, by seeing the woman with a simple eye like a child’s, by forgetting offences as they do. Only then we shall be in the way of the divine love and sanctity, and shall be dear to Jesus Our Saviour Who will embrace us and will press us to His Heart.

[9] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 4 , Campobasso, marzo-maggio 1985, p. 8.

[10] Carlo Iorio, op. cit.

[11] Ibidem.

[12] Archivio Storico Diocesano di Larino, Fondo Curia, b. 7 f. 74.

[13] Gino Luigi Parente, Beato Roberto da Salle, Edizioni Pungolo Verde, Campobasso, 1961

[14] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 3, Campobasso, aprile 1966, p. 2.

[15] Carlo Iorio, op. cit.

[16] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 3, aprile 1966, p. 1.

[17] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 3, Campobasso, aprile 1966, p. 2.

[18] Ibidem, p. 6.

[19] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 4, Campobasso, marzo-maggio 1985, p. 2. Traduzione: Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa.

[20] Ibidem, p. 3.

[21] Eco della Maddalena, La Grafica Moderna, n. 4 , Campobasso, marzo-maggio 1985, p. 3.

[22] Ibidem, p. 2.

[23] Nuovo Oggi Molise, 24 giugno 1997.

[24] Il Morronese. Trimestrale edito dalla Parrocchia S. Maria Maggiore, Anno 1, n. 3-4, Morrone del Sannio, agosto-dicembre 1997.

[25] Nuovo Oggi Molise, 24 giugno 1997.

 

 

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